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BLOG: LA CHIMICA E LA SOCIETA'

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Nell’Antropocene, l’epoca geologica attuale fortemente caratterizzata dalle attività dell’uomo, la Chimica ha il compito di custodire il pianeta e aiutare a ridurre le diseguaglianze mediante l’uso delle energie rinnovabili e dell’economia circolare.
Aggiornato: 9 ore 31 min fa

Cosa sappiamo delle nano-plastiche

19 maggio, 2025 - 21:48

Luigi Campanella

I prodotti plastici apprezzati per i loro bassi costi e per la loro durevolezza sono divenuti indispensabili nella società moderna. L’uso pervasivo della plastica ha però prodotto una grave crisi ambientale con una previsione di arrivare a 800 milioni di tonnellate consumati nel 2050. La degradazione degli scarti e rifiuti plastici attraverso processi chimici, fisici e biologici genera micro e nano plastiche che minacciano ecosistema e salute dei suoi abitanti. Le microplastiche sono state ritrovate nell’ambiente marino, nelle acque superficiali, perfino in regioni remote, come quelle artiche. Allarmanti recenti studi hanno riportato evidenze di nano-plastiche in tessuti umani, inclusa la placenta il fegato, i reni, il sangue evidenziando i relativi effetti tossici.

I rischi ambientali ed igienico sanitari posti dalle microplastiche sono divenuti un problema di assoluta primaria importanza. Le microplastiche attaccano l’ecosistema marino alterando fonti alimentari e cicli biogeochimici e l’ingestione di microplastiche da parte degli organismi marini porta al loro bioaccumulo.

Da un punto di vista della salute umana le nano-plastiche penetrano nelle cellule attraverso meccanismi come la endocitosi, la fagocitosi, la diffusione passiva inducendo lo stress ossidativo, cioè quello stato patologico derivato da un eccesso di radicali liberi nell’organismo non contrastato dalle difese endogene antiossidanti con conseguenti danni a RNA, DNA, proteine, grassi, da correlare a patologie anche gravi come i tumori, i disordini neurologici, l’invecchiamento precoce.

Ad oggi i meccanismi con cui si passa dallo stress ossidativo a queste patologie non é però noto soprattutto a lunga scadenza ed in condizioni di interazioni multisistemiche. I recenti progressi nell’analisi bibliometrica forniscono preziosi strumenti per sintetizzare i risultati delle ricerche sul tema ed identificare i gap culturali da coprire in certi settori. Mappando sistematicamente i risultati delle ricerche su micro e nano-plastiche si può così collegare quanto manca in termini di conoscenza con quanto invece si conosce, seguendo la progressiva copertura del gap.

Cosa sappiamo sulle nano-plastiche e il loro effetto sull’uomo e sull’ambiente? La recente pubblicazione della serie “Future Brief”, numero 27, promossa dalla DG Ambiente della Commissione europea, prova a fare il punto sullo stato della ricerca e delle conoscenze in materia di nanoparticelle plastiche, quale crescente preoccupazione per l’ambiente e per l’uomo. Per tirare in estrema sintesi le somme, il report Nanoplastics: state of knowledge and environmental and human health impacts risponde alla domanda come segue: conosciamo così poco le nano-plastiche da non poterne prevedere una regolamentazione specifica, ma ne sappiamo abbastanza da poter provare che esistono e che l’uomo le sta ingerendo e inalando a concentrazioni incalcolabili.

E non è una buona notizia.

Riferimenti

https://op.europa.eu/en/publication-detail/-/publication/a9088790-ace5-11ed-8912-01aa75ed71a1/language-en

La conclusione del documento UE:

Dalla ricerca qui presentata emerge chiaramente che l’intero ciclo di vita della plastica – dalla “culla” alla “tomba” – non è completo quando non possiamo più vedere la plastica: la plastica continua ad avere effetti ambientali ben oltre il momento in cui diventa invisibile. Il mancato controllo di questi inquinanti invisibili, che già permeano l’ambiente terrestre, atmosferico, acquatico e biologico, contribuisce a un pericolo crescente, di cui potremmo comprendere appieno le proporzioni solo quando sarà troppo tardi.

Le guerre sono anche un biocidio

15 maggio, 2025 - 12:34

Diego Tesauro

In questi tempi in cui i frastuoni di oltre 50 guerre sparse nel pianeta si fanno sentire ed il più forte vuole schiacciare il più debole, a dispetto del diritto internazionale, cade il 50esimo anniversario della fine della guerra del Vietnam con la conquista di Saigon il 30 aprile 1975. Questa guerra è stata la più cruenta, lunga (durò quasi 20 anni) e devastante combattuta dalla fine della seconda guerra mondiale con tre milioni di morti fra militari e civili da parte vietnamita e 60.000 da parte americana. Furono proprio le proporzioni del massacro, la volontà del più forte di prevalere sul più debole che hanno favorito la nascita di movimenti di protesta e pacifisti nel mondo occidentale. Ma ora è giunto il momento dopo 50 anni di chiedersi quale eredità abbia lasciato questa guerra. Tralasciamo la lezione che bisogna trarne dal punto di vista geopolitico e focalizziamoci su quello che è più consono alla nostra formazione, l’impatto sull’ambiente e sulla salute della popolazione L’ambiente è sempre uscito sconvolto dagli eventi bellici ed i teatri dei conflitti mostrano i danni inferti profondi anche a molti anni di distanza; e non ci stiamo riferendo a guerre combattute con armi nucleari, che ovviamente comporterebbero la scomparsa delle maggior parte delle forme di vita sulla Terra. Le Alpi portano a più di un secolo di distanza i segni della grande guerra o basta andare nelle Ardenne, per vedere ancora la devastazione dell’offensiva tedesca che si risolse con la decisiva vittoria degli alleati nella seconda guerra mondiale. E nel Vietnam? Se in questa guerra non sono state utilizzate armi chimiche al fine di uccidere militari e civili direttamente, come i gas nervini, le armi chimiche scelte furono gli erbicidi, oltre ad un numero cospicuo di “agrofarmaci”. Se quindi il danno alla salute umana non era intenzionale, almeno in linea principio, lo era il danno all’ambiente. Lo sforzo dell’esercito americano di denudare circa 2 milioni di ettari di foresta di mangrovia e 200.000 ettari di terreni agricoli era stato progettato per negare ai VietCong e alle truppe nordvietnamite cibo e copertura protettiva (figura 1a). All’epoca gli erbicidi venivano definiti, non con il loro nome chimico, ma con il colore usato per contrassegnare i barili. Una mezza dozzina di formulazioni, furono identificate come Agente blu (per danneggiare le coltivazioni), Agente Rosa, Agente Bianco o come soprattutto Agente Arancio, il più usato defoliante che quindi divenne il più famoso (Figura 1b).

Figura 1 (sopra, a) Una zona irrorata con erbicidi in Vietnam (sotto, b) un barile di colore arancio usato nella guerra

Questo agente era una miscela al 50% di due erbicidi, della famiglia degli erbicidi clorurati, disponibili in commercio, l’acido 2,4-diclorofenossiacetico e l’acido 2,4,5-triclorofenossiacetico (2,4,5-T) (figura 2).

Figura 2 Struttura dell’acido 2,4-diclorofenossiacetico (in alto) e l’acido 2,4,5-triclorofenossiacetico  (2,4,5-T) (in basso)

Questi erbicidi erano presenti sul mercato da diversi decenni e prodotti da varie multinazionali come la Dow Chemical e la Monsanto. In Italia il 2,4,5-T era prodotto dalla tristemente famosa Icmesa di Meda, del gruppo Givaudan controllato da Hoffman La Roche, responsabile del disastro di Seveso. Il 2,4,5-T era stato sviluppato negli anni quaranta, sintetizzato dalla reazione del 2,4,5-triclorofenolo (TCP) e l’acido cloroacetico. Il 2,4,5-triclorofenolo (per la sintesi vedere nota) ad alta temperatura, ma al di sotto degli 800°C, forma 2,3,7,8-tetraclorodibenzo-p-diossina (TCDD) secondo la reazione riportata nella nota, per cui l’erbicida è contaminato da questa diossina, che oggi viene chiamata anche diossina di Seveso in quanto fuoriuscita dall’Icmesa nel 1976. Negli anni sessanta si credeva che i defolianti fossero innocui per l’uomo, anche se in realtà le imprese produttrici avevano già prove della sua tossicità per la presenza della diossina, i cui effetti non erano ancora del tutto noti. Alla fine degli anni ’60, esperimenti di laboratorio dimostrarono che il 2,4,5-T poteva causare anomalie e nati morti nei topi, e ci furono segnalazioni di difetti alla nascita nelle aree irrorate del Vietnam. Nel 1971, quattro anni prima della fine della guerra gli Stati Uniti abbandonarono la loro decennale campagna di irrorazione a seguito delle crescenti condanne internazionali e le preoccupazioni per la sicurezza. La concentrazione di diossina, stabilita successivamente all’uso del agente arancio, nei fusti era molto variabile da 6,2 a 14,3 ppm, con una media di 13,25 ppm a seconda delle ditte produttrici. Oggi, c’è un ampio consenso sul fatto che queste concentrazioni di diossina pongono seri rischi per la salute di coloro che sono direttamente esposti, compresi i cittadini e i soldati vietnamiti, nonché i membri delle forze armate degli Stati Uniti e di altri paesi che l’hanno aiutata durante la guerra: Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda.

Negli Stati Uniti nel 1992, il Dipartimento degli Affari dei Veterani chiese all’Istituto di Medicina, oggi parte del NASEM, di rivedere la letteratura scientifica e fornire aggiornamenti biennali. L’ultimo di questi rapporti, Veterani e Agente Arancio, è apparso nel 2018 e ha identificato ben 19 tumori con prove “sufficienti” di un’associazione con l’esposizione agli erbicidi. Nel 2011 il Congresso degli Stati Uniti ha introdotto una legge a favore dei veterani americani e dei loro discendenti, colpiti dalla cloracne e da altre patologie. Secondo una sentenza della Corte Suprema di Seul (Corea del Sud) nel 2013 la Monsanto doveva rimborsare le spese per cure mediche a 39 veterani sudcoreani della guerra del Vietnam, avendo ammesso che la causa della cloracne dei militari è strettamente legata al loro contatto diretto con l’agente arancio.

Ma gli studi sulla tossicità della diossina hanno in gran parte lasciato aperta una delle domande più visibili e controverse che circondano l’Agente Arancio: se i composti rappresentano rischi non solo per coloro che sono stati direttamente esposti, ma per i loro figli. La preoccupazione per le generazioni future è stata provocata, in gran parte, dalla capacità di resistenza della TCDD. A differenza dell’erbicida stesso, che si decompone in poche ore o giorni, il TCDD può sopravvivere fino a 3 anni in un terreno esposto alla luce solare. Se lisciviato nei sedimenti di fiumi o stagni, può avere un’emivita di oltre 100 anni, un tempo più che sufficiente per essere raccolto da pesci, anatre e altri animali di cui le persone si nutrono, risalendo la catena alimentare e bioaccumulandosi nei tessuti adiposi a seguito della sua idrofobicità. Inoltre la diossina può essere anche inalata con la polvere contaminata e assorbita attraverso la pelle. Una volta nel corpo umano, la diossina può depositarsi nel seno e in altri tessuti adiposi e avere un’emivita da 7 a 11 anni. Può anche contaminare il latte materno ed essere trasmesso ai bambini che allattano. Dagli anni ’70, numerosi studi sugli animali hanno scoperto che i feti esposti alla diossina possono mostrare una vasta gamma di difetti alla nascita e problemi di sviluppo, suggerendo che un impatto sui feti umani è biologicamente plausibile. Ma documentarlo nel Vietnam si è rivelato difficile in quanto non è stato possibile condurre indagini scientifiche accurate.

Ora la maggior parte dei 101 milioni di abitanti sono nati dopo il 1971 e quindi lo studio potrebbe indirizzarsi verso i figli delle persone contaminate. I dati non sono disponibili per pure ragioni politiche da parte americana, ma anche paradossalmente vietnamita. Nel primo caso perché se si fosse dimostrato ciò che ci aspettava che l’esposizione agli erbicidi fosse collegata a difetti alla nascita – ci si sarebbe potuti aspettare che gli Stati Uniti pagassero un risarcimento ai bambini vietnamiti. In alternativa, se non fosse stato trovato alcun collegamento, ciò avrebbe potuto mettere in imbarazzo il governo vietnamita, che ha a lungo evidenziato i difetti alla nascita come il danno più importante dell’Agente Arancio. Recentemente Science ha fatto il punto della situazione sugli studi sulla propagazione alle future generazioni degli effetti della diossina.

 Un unico studio sul latte materno è in corso ma è improbabile che lo studio fornisca una risposta definitiva alla domanda sui difetti alla nascita, in quanto la coorte esaminata è troppo piccola per indagare sulle anomalie congenite. Da alcuni studi precedenti in particolare, è stato scoperto che un alto livello di diossina nel latte materno – un proxy per l’esposizione fetale – è associato a una crescita fisica più lenta e a un ritardo nello sviluppo neurologico nei loro figli. I ragazzi mostrano difficoltà di apprendimento, ad esempio, mentre le ragazze mostrano disturbo da deficit di attenzione, iperattività e autismo. I documenti “forniscono una forte prova” che vivere vicino a siti contaminati dall’Agente Arancio può provocare un elevato carico corporeo di diossina che è associato a disturbi comportamentali nei bambini. Ora bisognerebbe continuare a seguire i bambini mentre invecchiano. Ciò potrebbe rivelare collegamenti tra l’esposizione alla diossina e i tumori e altre malattie che si manifestano nel tempo durante la vita. Si tratta di stabilire se l’esposizione abbia causato cambiamenti biologici fondamentali nelle persone che possono essere tramandati di generazione in generazione. Gli scienziati e i funzionari vietnamiti sostengono di vedere tali effetti multigenerazionali che provocano difetti alla nascita diverse generazioni dopo l’esposizione. E sebbene gli autori del rapporto NASEM del 2018 abbiano concluso che c’erano “prove inadeguate o insufficienti” degli effetti epigenetici, hanno fortemente incoraggiato ulteriori studi sulla questione. Cristina Giuliani, biologa antropologa dell’Università di Bologna, e colleghi della Hue University of Medicine and Pharmacy e dell’Università della California (UC), Riverside, si sono concentrati su un meccanismo epigenetico basato sulla metilazione del DNA e su come influisce sull’espressione di un particolare gene, il CYP1A1. Ebbene gli scienziati hanno concluso che la prole di genitori vietnamiti esposti all’Agente Arancio condivideva una firma distintiva di metilazione del DNA CYP1A1 che non è stata osservata nei figli di genitori senza esposizione, ciò non dimostra sperimentalmente che l’esposizione alla diossina sia trasmessa ai discendenti. E non affronta la questione se eventuali cambiamenti di questo gene siano dannosi, benefici o neutri. Ottenere risultati più certi su questi problemi, richiederebbe studi epigenetici che confrontino diverse generazioni di popolazioni esposte e non esposte.

Al di là di questi studi, che non chiariscono gli effetti sulle generazioni future, per quanto riguarda gli effetti a lungo termine della diossina, il mancato studio del caso vietnamita potrebbe essere un’occasione persa dalla scienza per saperne di più. Bisogna inoltre tener conto che per ragioni anche anagrafiche la popolazione direttamente esposta sta diminuendo. Dal punto di vista ambientale resta la devastazione di territori dove è presente la diossina; all’epoca, i critici della tattica coniarono un nuovo termine – “ecocidio” – per descrivere la distruzione diffusa.  Nel 1983, 12 anni dopo la fine della campagna di erbicidi, Science riferì che gli scienziati vietnamiti che partecipavano a una conferenza a Ho Chi Minh City (il nuovo nome che ha assunto l’ex-capitale del Sud Vietnam, Saigon) avevano scoperto che molte foreste montane irrorate, che gli abitanti dei villaggi cercavano di convertire all’agricoltura, erano “inadatte alla coltivazione, ed il terreno si era coperto di “un’erba dalle radici profonde”. Un altro studio ha trovato solo 24 specie di uccelli e cinque mammiferi in una striscia di foresta pesantemente irrorata a terra; al contrario, due aree vicine indisturbate che ospitavano 145 e 170 tipi di uccelli e 30 e 55 specie di mammiferi. Anche in questo ambito a più di 50 anni dopo la fine dell’irrorazione, si sa poco del suo impatto ecologico a lungo termine ancora perché il Vietnam ha ora problemi di ambientali più urgenti, come l’inquinamento atmosferico sempre più grave da varie fonti, tra cui la combustione diffusa di rifiuti di plastica. Ai danni della guerra si stanno sommando i danni di uno “sviluppo” caotico, senza regole e senza rispetto. Il futuro per il Vietnam potrebbe essere dal punto di vista ambientale ancora più fosco. Nel paese c’è un’abbondanza di riserve minerarie di terre rare (stime del 2024 dell’USGS seconde solo alla Cina) e il suo sfruttamento, che per adesso non è ancora elevato. Gli Stati Uniti, già dall’era Biden, sono interessati a diversificare l’approvvigionamento per cui si prospetta una collaborazione con il governo vietnamita. Se questo evento è da considerarsi positivo, non lo è certamente per ulteriori studi sugli effetti della diossina nell’agente arancio durante la guerra in quanto è facile immaginare che sarà ancora maggiore interesse da parte dei due governi di stendere un velo di silenzio definitivo sui danni ambientali ed umani.    

NOTA

Il (2,4,5-triclorofenolo) TCP è prodotto a partire da 1,2,4,5-tetraclorobenzene e idrossido di sodio in glicole etilenico e xilene a 170-180 °C. Questa reazione è fortemente esotermica a pressione atmosferica. In questa reazione si genera come sottoprodotto una piccola quantità di 2,3,7,8-tetraclorodibenzo-p-diossina (TCDD) a seguito di eliminazione di due anioni cloruro

Per chi vuole approfondire:

Stellman J.M. et. al. The extent and patterns of usage of Agent Orange and other herbicides in Vietnam Nature 2003, 422, 681-689.

Normile D. The fog of war Science 2025, 388, 350-353.

La fumata bianca e la fumata nera.

7 maggio, 2025 - 10:01

Diego Tesauro

La fumata nera e la fumata bianca (Figura 1) sono due segnali di fumo adoperati dai cardinali riuniti in conclave per comunicare all’esterno l’esito degli scrutini per l’elezione del nuovo papa, servendosi della combustione prodotta per mezzo di una stufa installata nella Cappella Sistina.

Figura 1 Fumata Bianca in alto e nera in basso

Nella millenaria storia del papato questa tradizione è relativamente recente anche rispetto all’istituzione del conclave nel XII secolo. Quando si rese necessaria una forma di comunicazione, fra coloro che erano isolati ed il popolo romano, in attesa della nomina del suo vescovo (all’epoca anche capo di stato), per tutto il XIX secolo, Il fumo che fuoriusciva dal camino della cappella Sistina, stava ad indicare solo la mancata elezione a seguito della combustione delle schede elettorali. Solo dal 1914 la fumata bianca sta indicare l’elezione del pontefice. Ma come vengono generate la fumata bianca o nera?

Il metodo utilizzato nel XX secolo era basato sulla combustione di paglia umida e pece, che talvolta dava luogo a fumate grigie poco chiare. Pertanto a partire dal conclave del 2005 in luogo della combustione delle schede si utilizzano ben precise reazioni che permettono inequivocabilmente di individuare se la fumata è bianca o nera.

Per ottenere la fumata bianca i reagenti sono il clorato di potassio KClO3, lattosio (C₁₂H₂₂O₁₁) e la colofonia. La colofonia è una resina vegetale gialla, solida, trasparente che deve il suo nome alla città greca della Ionia Colofone (Figura 2).

Figura 2 La colofònia*

E’ ottenuta dal residuo della distillazione delle trementine che generano le conifere per proteggersi dagli agenti patogeni. La colofonia è composta essenzialmente da acidi resinici i quali sono costituiti per circa il 90% da acido abietico (C20H30O2) (Figura 3) un diterpenoide, mentre il rimanente 10% è una miscela di acido diidroabietico (C20H32O2), cioè dove uno dei due doppi legami è idrogenato e acido deidroabietico (C20H28O2) dove è presente un terzo doppio legame.

Figura 3 Da sinistra a destra Le Strutture dell’acido abietico, dell’acido diidroabietico e dell’acido deidroabietico

La reazione è una reazione redox. Come si intuisce il clorato è l’agente ossidante che genera l’ossigeno secondo la reazione, ad una temperatura a circa 400 °C:

2 KClO3 → 2 KCl + 3 O2

L’ossigeno ossiderà il lattosio con reazione esotermica e l’acido abietico. La presenza del lattosio è richiesta perché produce nella reazione di ossidazione una quantità considerevole di acqua, mentre l’ossidazione dell’acido abietico genera particelle solide che sospese nell’aria, riflettono la luce e facilitano la condensazione delle particelle di acqua, generando il caratteristico colore bianco del fumo.

Per ottenere la fumata nera, si utilizza una miscela di perclorato di potassio, antracene e zolfo. Il perclorato di potassio KClO4, di cui si è ampiamente discusso in un precedente post, ha lo stesso compito del clorato cioè generare ossigeno. Ma rispetto al clorato è più stabile termicamente e si decompone a temperature più alte (oltre 500 °C), con una cinetica più lenta:

KClO4 → KCl + 2O2

Questo comportamento rende la combustione più controllata.

L’antracene, un idrocarburo policiclico aromatico, e lo zolfo fungono da combustibili. L’antracene, presente nel catrame di carbone, produce una grande quantità di particelle di carbonio incombusto nella forma allotropica di grafite (quella stessa che osserviamo uscire dalle marmitte soprattutto degli autocarri che hanno una combustione inefficiente del gasolio) che danno origine a un fumo denso e nero. Pertanto la reazione produce non solo diossido di carbonio, ma anche grafite secondo la reazione:

C14H10 + O2→ C + CO2 + H2O

Come osservate la reazione non è bilanciata in quanto le proporzioni fra grafite e diossido di carbonio dipendono dalla rapidità della reazione di produzione e dalla disponibilità dell’ossigeno. Infatti se la reazione fosse troppo rapida, rischierebbe di consumare tutto il combustibile ossidandolo completamente a diossido di carbonio cioè la reazione di ossidazione non si fermerebbe ad ossidare il carbonio a grafite, non producendo le particelle nere, ma tutto il carbonio assumerebbe lo stato di ossidazione +4 in luogo dello zero della grafite. Lo zolfo ossidandosi invece forma diossido di zolfo, che contribuisce ad aumentare la densità e l’opacità del fumo.

Nota

L’acido abietico deriva da un diterpene. I diterpeni sono una classe di terpeni composti da quattro unità isopreniche, spesso con formula molecolare C20H32. L’acido abietico deriva per ossidazione all’aria o per azione del citocromo P450 dal abietadiene (appunto un diterpene), che a sua volta è prodotto dal copalil pirofosfato (CPP), a sua volta derivato dal geranilgeranil pirofosfato (GGPP), precursore di molti diterpenoidi.

Figura 4 La biosintesi dell’acido abietico a partire dal geranilgeranil pirofosfato (GGPP) (1) attraverso copalil pirofosfato (CPP) (2) e l’abietadiene (3)

  • NdA. La colofònia è anche nota in commercio col nome di pece greca, resina per violino (violin rosin), resina della gomma (essudato delle incisioni su alberi vivi di Pinus palustris e Pinus caribaea) e tallolio. Come additivo alimentare ha il codice E915.

Chi guadagna a mezzogiorno?

3 maggio, 2025 - 10:01

Claudio Della Volpe

Il blackout verificatosi in Spagna e Portogallo alle 12:30 ora locale (Madrid) di lunedì 28 aprile ha causato che in pochi istanti gran parte della rete elettrica di Spagna e Portogallo sia collassata, causando l’interruzione dell’alimentazione su quasi tutto il territorio.

E’ un evento importante da capire ed analizzare ma anche da integrare nella visione della transizione della rete elettrica mondiale a cui stiamo andando incontro.

Per capire di più queste cose possiamo guardare anche ad un altro fenomeno che gran parte di noi NON conosce: specie in primavera ed estate ci sono momenti in cui l’energia elettrica non costa nulla sul mercato elettrico, ma noi utenti finali continuiamo a pagarla; come mai?

Questo dato potete cercarvelo da soli sulla pagina del GSE, il gestore della rete elettrica nazionale: questo qui sotto è il prezzo della energia elettrica del 1 maggio 2025 in Italia, il PUN, ossia il prezzo Unico nazionale che i gestori dei nostri servizi pagano ai produttori sul cosiddetto borsino elettrico e che diventa poi parte del prezzo della corrente che noi paghiamo:

https://www.mercatoelettrico.org/it-it/Home/Esiti/Elettricita/MGP/Esiti/PUN

Come vedete per il 1 maggio 2025 per circa 6 ore il prezzo della corrente elettrica è previsto a ZERO:

Non è strano né isolato; nell’ultimo mese la situazione è stata questa:

Nei giorni di bel tempo (a centro giornata) o di vento forte il prezzo crolla, perché in quel momento la offerta sul mercato SUPERA la domanda; per qualche ora che diventano decine di ore durante l’anno intero (si veda l’immagine successiva); ma attenzione non siamo NOI utenti finali che paghiamo zero l’energia; noi continueremo a pagarla secondo il nostro contratto; la pagheranno zero le società che comprano dai produttori e ci rivendono l’energia elettrica finale; in quel momento il loro profitto sarà massimo, ma il nostro vantaggio per quel ben di dio che arriva dal Sole sarà nullo.

Quando poi il sole o il vento vanno giù occorre usare i fossili e allora il prezzo scarta verso i 100 e più euro a  megawattora o 0.12-0.16 euro a kilowattora.

Ovviamente il nostro prezzo finale non potrebbe essere zero perché comunque dobbiamo pagare il servizio di trasporto della energia e i servizi generali di funzionamento e gestione del venditore nei nostri riguardi (chessò la pagina web tramite la quale interagiamo col suo sito). Ma rimane che il nostro prezzo finale non viene in genere avvantaggiato da questo fenomeno del costo zero.

I due fenomeni che abbiamo citato, il blackout iberico e la vistosa mancanza di risparmio sul prezzo legata alle rinnovabili hanno la stessa origine; il mercato elettrico o borsino elettrico ed in genere il sistema elettrico non è organizzato per il bene comune, per gestire collettivamente la risorsa elettricità, ma per massimizzare i profitti dei produttori e venditori di energia elettrica; il mercato ha ormai da molti decenni terminato il suo ruolo di allocatore  neutrale ed efficiente delle risorse per diventare un meccanismo di difesa di interessi corporativi.

Avevo già avuto modo di raccontare cosa combina il mercato elettrico italiano con la storia del CIP6* che raccontai anni fa (rifacendomi al lavoro sempre da ricordare di Leonardo Libero) in vari post, dedicati alla storia dell’energia elettrica in Italia (erano 5 pubblicati ormai più di 10 anni fa su questo blog).

Il mercato elettrico, ed in genere il mercato, sta ostacolando il vero progresso della generazione elettrica che necessita di importanti modifiche strutturali; la Spagna per esempio è il paese europeo meno interconnesso ed è stato rimproverato dall’UE per questo; nei giorni precedenti al blackout si erano già verificati due momenti di crisi locale in Spagna raccontati da Repsol (https://www.ilfattoquotidiano.it/2025/04/29/5-giorni-prima-del-mega-blackout-repsol-aveva-lanciato-lallarme-su-problemi-tecnici-ce-stato-un-grave-guasto-elettrico-lo-rivela-el-mundo/7968845/).

Quali sono gli aspetti di ammodernamento che servono sicuramente ma mancano  in Spagna ed altrove in Europa e nel mondo?

  1. Integrazione estesa della rete elettrica che serva a scambiare maggiori quantità di elettricità riducendo gli effetti della relativa imprevedibilità delle rinnovabili; al limite questo vuol dire UNA sola rete elettrica mondiale come proposto già nel 1938 da Buckminster-Fuller
  2. In attesa di una tale rete unica sviluppare accumuli locali di grande entità basati sull’eccesso di produzione delle rinnovabili specie del FV nelle giornate estive con accumulo sotto forma di idrogeno, metano o ammoniaca da bruciare e recuperare in situ e stoccare per le future esigenze, dunque sviluppo di un sistema di idrolizzatori, reattori chimici da idrogeno ad ammoniaca o metano, serbatoi per accumuli, reti di trasporto gas e centrali di combustione che funzionino poche ore l’anno, non basate dunque sul principio di redditività economica
  3. Consentire all’utente finale di pagare i consumi sulla base della produzione in tempo reale non invece a prezzi costanti che favoriscono il produttore o il distributore

Quello che queste mancanze denunciano è che le forze produttive, in particolare la trasformazione di energia, confliggono con la nostra organizzazione economica basata sul criterio del massimo profitto privato, e non invece sul benessere collettivo.

Occorre cambiare questa situazione al più presto se no la nostra specie diventerà una di quelle che scompaiono ben prima dei fatidici 5 milioni di anni medi: noi giovani scimmie intelligenti (in realtà mica tanto) ne abbiamo solo 300mila.

PS a post scritto leggo su Le Scienze che in Cina (un paese che viene spesso indicato come il nemico autocratico del libero occidente) mandano SMS agli utenti per invitarli a ridurre i consumi se ci sono problemi di sottoproduzione o al contrario per approfittare dell’eccesso produttivo consumando al momento, rendendo in questo modo più “intelligente” il consumo della risorsa.

* Il CIP6 è una delibera del Comitato interministeriale dei prezzi adottata il 29 aprile 1992 (pubblicata sulla Gazzetta ufficiale n. 109 del 12 maggio 1992) a seguito della legge n. 9 del 1991, con cui sono stabiliti prezzi incentivati per l’energia elettrica prodotta con impianti alimentati da fonti rinnovabili e “assimilate”. Il CIP6 è il contributo che abbiamo pagato per decenni per sviluppare le rinnovabili, ma in realtà usato per bruciare rifiuti e oli pesanti tecnicamente “assimilati” alle rinnovabili, uno scandalo enorme, costato decine di miliardi di euro.

L’Iran e il perclorato di sodio.

29 aprile, 2025 - 14:49

Claudio Della Volpe

Bandar Abbas è una delle maggiori città iraniane e il suo porto è il principale porto dell’Iran, situato sullo stretto di Hormuz, nella parte più stretta e critica del Golfo Persico, est della penisola arabica (attenzione a non confonderlo, come capita spesso a me, col Mar Rosso, che è dal lato ovest della penisola Arabica).

Shahid Rajaee, una delle due metà del porto, è una grande struttura per le spedizioni di container, che copre 2.400 ettari. Gestisce 70 milioni di tonnellate di merci all’anno, tra cui petrolio e trasporti generali. Dispone di quasi 500.000 metri quadrati di magazzini e 35 posti di ormeggio.

Sabato 26 aprile vi si è verificata una enorme esplosione che ha provocato almeno 18 morti e 750 feriti con distruzione di vetri fino a chilometri dall’origine ed una altissima colonna di fumo.

L’autorevole sito della BBC riporta un filmato registrato casualmente dalla telecamera di un guidatore distante.

https://bbc.com/news/videos/clywpwr8y71o

Se ne trovano in rete anche altri a minore distanza.

Il video è privo di sonoro, ma mostra un dato importante per comprendere la dinamica degli eventi; inizia con una colonna di fumo già in atto, SEGUITA solo dopo qualche secondo dalla gigantesca esplosione.

Si tratta quindi verosimilmente di un incendio iniziale a cui è succeduta l’esplosione.

Questo serve a distinguerne l’origine; non si è trattato di un attacco missilistico, ma più probabilmente di un incendio, che può certo verificarsi casualmente in un grande porto come quello di Bandar Abbas (ma che potrebbe anche essere il risultato di un attacco con droni o comunque di un sabotaggio) che ha fatto in seguito esplodere sostanze ivi presenti.

Incendio fortuito o sabotaggio o attacco deliberato non sono ovviamente identici e potrebbero avere effetto sui colloqui attualmente in corso fra USA ed Iran sull’accordo per lo sviluppo del nucleare che sono ripresi da poco tempo.

Negli ultimi mesi le notizie giornalistiche riportano che nel porto iraniano sono state sbarcate migliaia di tonnellate di perclorato di sodio, provenienti dalla Cina. Le autorità iraniane hanno escluso qualunque implicazione con l’industria del petrolio.

Il perclorato di sodio NON è di per sé un buon esplosivo, anzi non può definirsi nemmeno DI PER SE un esplosivo, ma può esplodere in determinate condizioni che esamineremo fra un momento; esso viene usato per produrre una sostanza usata nei missili a combustibile solido: il perclorato di ammonio (di cui abbiamo parlato in passato) od anche per produrre miscele esplosive se per esempio viene mescolato a sostanze organiche o a zolfo.

Dunque questa esplosione rallenterà la produzione di razzi e missili, come lo Zolfaghar, che l’Iran esporta verso la Russia ed usa in altri teatri bellici.

Il perclorato di sodio è un composto di formula NaClO4, il sale sodico dell’acido perclorico, che si presenta come un solido cristallino incolore ed inodore. È un ossidante forte (il cloro ha numero di ossidazione +7) e può essere utilizzato, come tale o modificato, come comburente in miscele propulsive o esplosive. In sostanza gioca il ruolo che può giocare l’ossigeno. Notate la differenza che sussiste fra il perclorato di sodio e quello di ammonio, in cui la presenza dell’azoto nel suo stato più ridotto lo trasforma in un composto INTRINSECAMENTE esplosivo, capace di una reazione di auto-ossidoriduzione.

E’ estremamente solubile in acqua (oltre 2kg/l) e presenta proprietà igroscopiche; è stato usato come elettrolita per la costruzione di batterie agli ioni di sodio (invece che di litio come intercalante in elettrodo).

Un ossidante forte implica che esso non possa da solo dar luogo ad un esplosivo; in realtà abbiamo affrontato questo tema già in passato in vari post. Un esplosivo infatti deve avere una di queste proprietà: contenere un ossidante ed un riducente od essere formato da una miscela di sostanze ciascuna dotata di una delle due proprietà, anche eventualmente sfruttando la presenza dell’ossigeno atmosferico.

Il perclorato di sodio da solo è invece un forte ossidante, la presenza di ossigeno non lo aiuta a reagire; anzi se lo si riscalda oltre i 400°C si decompone in acido cloridrico ed ossigeno, ma non esplode.

Esplode se e solo se lo mescoliamo con un riducente che gli ceda i suoi elettroni, dunque una sostanza organica o un metallo, meglio se finemente suddiviso.

Comunque la definizione come esplosivo del perclorato di sodio puro è ancora discussa in letteratura (si vedano i documenti in bibliografia) in rapporto al suo comportamento se finemente suddiviso ed esposto ad una fiamma.

Può aiutarci a capire meglio la situazione un articolo scritto da chimici italiani: in cui si analizza l’esplosione di una miscela di sostanze ciascuna delle quali di per se non è esplosiva ma che messe insieme in modo inopportuno diventano una sorgente di esplosione. Per esempio stoccare il materiale senza superfici di separazione è uno dei fattori di rischio. Non tener conto del potenziale di reazione reciproca è un altro. Ovviamente non sappiamo nulla della effettiva situazione di Bandar Abbas, ma non crediamo sia stata poi così diversa da altri casi che abbiamo analizzato come l’esplosione nel porto di Beirut o nel porto cinese di Tianjin, che pure abbiamo cercato di analizzare in passato o perfino nella moderne fabbriche tedesche.

Probabilmente una cosa simile è successa anche a Bandar Abbas; una insufficiente gestione del rischio, spinta dal ritmo incalzante ed assurdo della produzione moderna (bellica o meno non fa differenza) ha certamente potuto provocare l’esplosione, non sappiamo se la cosa sia stata fortuita o sia stata aiutata opportunamente da qualche nemico dell’Iran.

Certo rispettare le norme di sicurezza rende più difficile anche ad un ipotetico nemico di intervenire.

Secondo un articolo pubblicato sul NYT di oggi, domenica 27, i morti sono diventati 25 e i feriti oltre 1100; si tratta dunque di una grande incidente chimico o di un atto bellico non trascurabile. Vedremo nei prossimi giorni.

Oggi 29 aprile: Reuters segnala 70 morti e 1200 feriti

NdA Di passaggio ricordo qua che una miscela esplosiva analoga si può ottenere facilmente ed aiuta a capire il problema che pongo della impossibilità per il perclorato DA SOLO di esplodere; da ragazzi si raccoglievano facilmente il clorato di potassio (che si usa come disinfettante della gola) e lo zolfo in eccesso nelle cantine (e che serve per fare lo “zolfarello” al vino bianco, bruciarci zolfo vicino per produrre anidride solforosa per impedirne l’acidificazione); la miscela di clorato di potassio e zolfo se sottoposta a compressione (tipicamente fra due pietre) produce una blanda esplosione; attenzione non riproducete questo processo da soli se non ne comprendete le caratteristiche, potreste farvi male. Una tradizione del genere da veri monelli si trova in varie regioni italiane.

Da leggere:

https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/0010218067900624

https://www.sciencedirect.com/topics/earth-and-planetary-sciences/ammonium-perchlorate

https://pubchem.ncbi.nlm.nih.gov/compound/Sodium-Perchlorate

Agricoltura sostenibile.

25 aprile, 2025 - 14:59

Luigi Campanella, già Presidente SCI

È stato detto e scritto più volte. Se tutta la superficie coltivabile della Terra fosse divisa fra gli 8 miliardi di persone e passa che la abitano a ciascuno spetterebbe un fazzoletto che dovrebbe rappresentare la superficie dalla quale ottenere le risorse per vivere. Purtroppo, fatti i conti, si è visto che così non è.

Però anziché puntare solo ad aumentare la quantità di risorse ottenibili dal proprio fazzoletto gli uomini dei Paesi più forti hanno deciso di appropriarsi dei fazzoletti dei cittadini dei Paesi più deboli. Così la societá globale si è indirizzata verso una visione polarizzata in cui coesistono cittadini che dispongono di 8 fazzoletti e cittadini che possono usufruire solo di frazioni del proprio fazzoletto.

Per combattere la fame nel mondo ci sono tre strade tecniche l’aumento della produzione con fertilizzanti, l’aumento della capacità nutrizionale con modificazioni genetiche delle colture alimentari, la protezione della salute dei vegetali con equilibrata adozione di fitofarmaci; ed una etica, utilizzare contro la fame nel mondo le risorse alimentari che vengono colpevolmente indirizzate verso la produzione di proteine animali venendo incontro a richieste da parte di stili di vita le cui conseguenze  sul piano ambientale ed igienico sanitario sono ben note.

Tutte queste strade trovano però per ragioni diverse opposizione le prime da parte della componente ambientalista della società civile, le seconde da parte dei grandi produttori di carne. Ovviamente questo non significa che le strade tecniche siano state abbandonate, ma di certo la intensità con cui vengono perseguite non corrisponde ai criteri di emergenza che a volte la fame nel mondo richiederebbe.

Ora però una nuova denuncia si aggiunge a creare allarme: l’agricoltura 2.0 e 4.0 potrebbe con le innovazioni tecniche e scientifiche che la caratterizzano contribuire ad una nuova fase dello sviluppo agricolo con ovvie ricadute anche sul problema alimentare. Cementificazione e abbandono della terra costringono l’Italia ad acquisire all’estero il 40% di mais, soia e grano; ed ora si aggiunge il problema dei dazi americani.

I terreni agricoli persi nell’ultimo secolo ammontano al 33% con valori delle % importate dei prodotti consumati che per carne e grano raggiungono il 60%. Le ragioni di questo abbandono sono molteplici a partire dall’emergenza siccità dovuta ai cambiamenti climatici ed alla irrazionale gestione degli invasi per la raccolta dell’acqua piovana. Altre ragioni vanno ricercate nella diffusione di specie selvatiche, nelle difficoltà gestionali in relazione ai limiti burocratici europei, nella concorrenza da parte delle importazioni da Paesi come Turchia e Canada dove si coltiva con tecniche non consentite in Italia per l’uso indiscriminato del glifosato.

La mancanza di reciprocità pesa peraltro anche sulla possibilità di accordi bilaterali. A questo quadro negativo fanno riscontro alcune situazioni favorevoli: l’innovazione tecnologica con la robotizzazione agricola, le applicazioni all’agricoltura dell’intelligenza artificiale, il nuovo approccio dell’agricoltura rigenerativa. Questa sfrutta la presenza nel terreno dei microorganismi preziosi per la sua qualità. Così il suolo viene continuamente rigenerato acquisendo resilienza e fertilità, sostituendo l’aratura tradizionale, che a causa della grande profondità coinvolta, comporta una modificazione strutturale del terreno che finisce per nuocere alla resa del terreno rispetto alle colture su di esso impiantate.

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