BLOG: LA CHIMICA E LA SOCIETA'


Ricordi di depurazione: la digestione anaerobica.
Mauro Icardi
Il corretto caricamento dei fanghi è il fattore principale per la corretta conduzione del processo di digestione anaerobica. Per ottenere questo risultato occorre operare un attento e continuo controllo, sia analitico che gestionale.
La digestione anaerobica si svolge attraverso una catena metabolica che, partendo da composti carboniosi complessi, conduce a intermedi metabolici più semplici, fino alla produzione di acidi grassi volatili (fase acidogena), poi ridotti a metano nella fase metanigena. La reazione di metanazione è la reazione più lenta e condiziona l’intera velocità del processo. Se si mantiene l’equilibrio tra la quantità di acido acetico prodotta nella fase acidogena e la quantità metabolizzata a metano si parla di condizioni stabili. Diversamente, l’accumulo di acido acetico non ancora metabolizzato a metano determina un rallentamento dei processi, tossicità per i batteri di acidificazione dei fanghi e, in certe condizioni, anche blocco del digestore e della produzione di biogas. Per favorire condizioni stabili si bilancia il rapporto tra materiale già digerito, e il caricamento giornaliero del fango ancora da decomporre. I parametri chimici di processo vengono determinati sul materiale prelevato nell’ambiente di reazione (digestore) per verificare il corretto procedere della reazione. I principali parametri di processo comunemente valutati sono principalmente i seguenti.

Acidi grassi volatili (AGV). Sono gli acidi organici prodotti nel corso della degradazione della sostanza organica. La concentrazione di AGV è espressa come concentrazione di acido acetico nel volume di materiale (mg/L), dipende dalla quantità e qualità del fango caricato nel digestore e dall’equilibrio tra batteri acidogeni e batteri metanigeni. Come parametro di stabilità non viene assunta la concentrazione assoluta ma le variazioni di concentrazione: incrementi repentini di concentrazione indicano che il processo volge verso la fase acidogenica piuttosto che metanigena. In generale un incremento degli AGV è conseguente all’aumento del carico organico da trattare.
Alcalinità. Rappresenta la capacità del sistema di accettare protoni ed è espressa come concentrazione di carbonato di calcio. L’alcalinità di un digestore anaerobico è determinata dall’equilibrio di ammoniaca, originata dalla degradazione proteica, e bicarbonato, derivato dalla dissoluzione dell’anidride carbonica (CO2), che formano un sistema in grado di tamponare l’abbassamento del pH dovuto dall’accumulo degli acidi grassi volatili.

Rapporto AGV/alcalinità totale. La concentrazione di AGV e l’alcalinità sono due parametri molto sensibili alle variazioni del sistema e il rapporto è importante per monitorare segnali di condizioni di instabilità del processo. Valori intorno a 0,3 indicano un’operatività stabile del digestore, mentre valori superiori possono indicare l’accumulo di AGV e l’insorgere di problemi, oltre che il rischio di blocco della produzione di biogas. Il rapporto AGV/alcalinità descrive la dinamica tra materiale già digerito (alcalinità rappresentata da ceneri e ammoniaca) e materiale fresco in fase di degradazione . Valori di rapporto AGV/alcalinità totale superiori sono molto spesso sintomo di una sovralimentazione del digestore.
Concentrazione di ammoniaca. L’ammoniaca è prodotta durante la degradazione delle proteine. Un’alta concentrazione di ammoniaca può inibire i batteri sia acidogeni sia metanigeni. Gli intervalli di concentrazione possono variare con questa scala di concentrazione e producono effetti diversi:
• 200-1.500 mg/L non tossica
• 1.500-3.000 mg/L inibente se il pH è sotto 7,4
• 3.000 mg/L sempre inibente.
La presenza di ammoniaca è comunque importante per tamponare il sistema dentro al digestore e compensare l’accumulo di acidi grassi volatili mantenendo un pH stabile.
pH. Il valore dipende dai parametri visti in precedenza: concentrazione di acidi grassi volatili, ammoniaca, alcalinità. In un digestore in fase stabile il valore di pH dovrebbe aggirarsi intorno a 6,5-8. Cadute del valore di pH sotto 6,5 indicano un accumulo di acidi grassi volatili le cui cause vanno verificate, anche se nella maggior parte dei casi sono dovute al sovraccarico del digestore per un caricamento non corretto.
Come si può notare la gestione di un digestore anaerobico è un’operazione da non sottovalutare e che non deve essere condotta con superficialità, un’operazione per addetti alla conduzione del processo anaerobico che devono servirsi delle analisi di controllo, ma anche della propria sensibilità ed esperienza, che si costruisce con il tempo e la pazienza. Le conoscenze di chimica industriale si applicano molto bene alla gestione di questa sezione di un impianto di depurazione. Io ne sono sempre stato attratto e ne conservo un ricordo molto vivo e gradevole. Il solito confronto con la materia che Primo Levi narrava nelle sue opere. Un altro caso di chimica modesta poco conosciuta, ma molto utile.
Ecologia e giustizia sociale.
Luigi Campanella, già Presidente SCI
Il Giorno della Terra che dal 1970 annualmente festeggiamo il 22 aprile è nato per merito dell’ambientalismo americano in risposta ad un disastroso inquinamento da petrolio sulle coste della California. Poco dopo nel 1972 si celebrò a Stoccolma un altro evento spinto da una ideologia ambientalista: il primo summit ONU sull’ambiente Umano. Ma purtroppo i risultati sono stati quelli con cui ci confrontiamo oggi in termini di estinzione documentate di specie animali, 765, e di estinzione a rischio, oltre 6000, di cui 161 in Italia. La causa principale è la distruzione degli habitat naturali attaccati dagli agenti patogeni a seguito del grave degrado ambientale. Le risposte del mercato non sono mancate con nomi diversi, come sviluppo sostenibile, economia verde, economia circolare, transizione ecologica, tutte portate avanti affidandosi alla innovazione tecnologica, ma senza tenere conto di quello che finalmente negli ultimissimi tempi è emerso come l’indicazione di ONE HEALTH, una sola salute che lega tutti gli esseri viventi ed il mondo nel quale vivono, quella che papa Francesco ha chiamato nell’enciclica Laudato si’: ecologia integrale.

Il difetto di queste risposte è pensare di parametrare l’ecologia all’economia come avviene oggi con il commercio fra imprese di tonnellate di CO2 al costo di 40 euro/ton: tutti guadagnano e perde l’ambiente. Nemmeno l’economia circolare su cui puntavano sembra la soluzione se, come dice l’ultimo Report The Circularity Gap, l’economia mondiale ricicla solo l’8,6%, peraltro in calo rispetto al 2019 (9,1%). L’uomo è purtroppo il primo responsabile se si pensa che la massa di plastica in circolazione è doppia di quella di tutti gli animali viventi (7 Gton rispetto a 4) e che la massa di tutti gli alberi e arbusti è superata da quella di edifici ed infrastrutture (900 Gton rispetto a 1100). Finalmente si comincia a parlare di una Corte di Giustizia per i Diritti della Natura; sarebbe sbagliato se però questa Corte nascesse col primario interesse a contrastare lo sviluppo, la crescita e la civiltà industriale e quanto hanno realizzato in termini di sicurezza, salute, alimentazione.

È la condivisione delle conoscenze e la solidarietà che consentono di rendere tutti questi valori fra loro compatibili e non alternativi, contrastando le sperequazioni responsabili della polarizzazione della nostra Società fra ricchi e poveri, paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo, società demograficamente in espansione ed altre sempre più in contrazione, tecnologie innovative mature e elementari ritardi digitali.
Scienza e verità.
Luigi Campanella, già Presidente SCI
Marcello Cini diceva che la scienza non è la verità come dimostra la sua storia e diceva anche che non è neutra poiché nasce in un contesto economico, politico, sociale che ne influenza sviluppi ed esiti.
Il rapporto con il potere politico spesso però si basa su valutazioni opposte: utilizzare la scienza come verità assoluta in difesa di scelte e posizioni di comodo. A questa situazione purtroppo concorrono anche alcuni scienziati che inebriati dalla propria immagine dispensatrice di verità rassicurano l’opinione pubblica, prestandosi alla strumentalizzazione politica.
In questo non c’è nessuna valutazione negativa: che fenomeni inediti non abbiano spiegazioni acquisite, che alle tante domande che la vita pone non ci siano sempre risposte adeguate deve essere accettato proprio in funzione della fiducia dei cittadini negli avanzamenti della scienza. A proposito dei quali il ricercatore ha un ruolo essenziale che gli consenta mentre percorre la strada in una direzione di cogliere occasioni e scoperte in un’altra.

La scienza esplora, indaga, nelle occasioni più fortunate fornisce risposte che però sono sempre contingenti nel tempo ne possono arrivare altri più idonee a spiegare certi fenomeni perché la scienza non avanza per dogmi, ma per paradigmi.
Purtroppo questo stato dinamico espone la scienza a fake news e infox, le prime destinate a creare ignoranza con informazioni artatamente false, il secondo a creare confusione attorno alle conoscenze già acquisite (informazione tossica, dal francese). Insieme i 2 fanno ridurre o scomparire l’orizzonte del vero. La scienza però continua – guai se non fosse- a difendere ed esaltare la propria insostituibile credibilità con mezzi e strumenti diversi spesso affidati alle interazioni e collaborazioni fra discipline.

Alfio Quarteroni, matematico del Politecnico di Milano, è una dimostrazione vivente e recente delle opportunità di applicazione che vengono stimolate quando una disciplina scientifica interagisce con le altre. Così nel suo caso l’applicazione della matematica alla fluidodinamica ed alla medicina ha consentito di realizzare un cuore virtuale per aprire la strada a nuove terapie.
Grazie a supercomputer nel progetto Heart Simulator è stato ricostruito il funzionamento dello straordinario motore del nostro organismo. Tradurre la complessità cardiaca in equazioni matematiche significa mettere a disposizione dei medici strumenti di conoscenza del comportamento del cuore che TAC e RMN non sono in grado di fornire.
Il punto di partenza è che ogni singola attività del cuore si può descrivere con le leggi della fisica e può quindi essere tradotta in equazioni. Si tratta di equazioni perfette ma quasi impossibili a risolvere, visto che per ogni battito bisogna risolvere milioni di variabili; ma non per un supercomputer. Il modello virtuale ottenuto ci mostra un cuore in movimento che batte con la possibilità in ogni suo punto di ricostruire valori e variabili che caratterizzano un determinato comportamento. Per rendersi conto della complessità del progetto si pensi che ad ogni battito cardiaco corrispondono 4 ore di attività di elaborazione da parte del supercomputer e che linee di codice del software che compone il progetto sono 200 mila. Il progetto è già attivo in 20 ospedali al mondo.
Anche la chimica è coinvolta in questi avanzamenti. I sensori indossabili sono un nuovo prezioso strumento di controllo dello stato di salute capace di prevenire situazioni di allarme con la determinazione di opportuni biomarcatori. La matrice a cui si applicano può essere il sangue, la saliva, l’esalato e, come ultima scoperta, il sudore all’interno dei quali sono presenti numerosi indicatori di patologie anche gravi. La tecnologia è mini-invasiva, continua, scientificamente affidabile. Gli approcci sperimentali sono 2: quello differenziale in cui il sensore indossabile determina un indice e quello integrale in cui invece misura più indici insieme ed elabora una risposta complessiva. La tecnologia è in grande sviluppo grazie alle ricerche condotte per gli aspetti sia di ingegneria che di chimica e biologia dei sensori
Il cuoio archeologico
Biagio Naviglio
L‘importanza dei materiali nella storia dello sviluppo tecnologico è testimoniata dal fatto che i nomi dei materiali che l’uomo ha via via imparato ad usare vengono impiegati per indicare le età in cui tradizionalmente viene suddivisa la preistoria:
- Età della pietra (Paleolitico, Mesolitico, Neolitico)
- Età del bronzo
- Età del ferro
Queste denominazioni indicano le tappe del progressivo sviluppo tecnologico dell’umanità. Dalla sua comparsa sulla Terra sino a qualche migliaio di anni fa l’uomo, per soddisfare i suoi bisogni, ha sfruttato le risorse della natura con la caccia, con l’uso della pietra, dell’osso e così via. In sostanza, l’archeologia ha suddiviso le epoche della cultura umana, secondo la natura della materia prima che l’uomo ha adoperato per confezionarsi i più necessari utensili; tuttavia, l’epoca del cuoio non è mai stata presa in considerazione anche se essa può essere considerata come una delle più antiche. Già nel paleolitico, i Neanderthaliani iniziarono a lavorare le pelli degli animali cacciati (mammuth, bisonti, orsi, lontre, scoiattoli, volpi, lupi, ecc.) e a ripurirle dai brandelli di materia organica per utilizzarli come copertura. L’uso delle pellicce si rese necessario a causa dei repentini crolli di temperatura e del susseguirsi di periodi glaciali che determinarono anche lo spostamento di intere popolazioni.
Il cuoio, materiale naturale di origine animale, è stato quindi utilizzato fin dall’inizio della storia dell’uomo; esso è, infatti, uno degli oggetti più antichi realizzati dall’uomo per proteggersi dalle intemperie. Dunque, il cuoio, la pelle e la pelliccia appartenevano a uno dei gruppi di materiali più importanti della preistoria per soddisfare i diversi bisogni umani. Gli uomini primitivi cacciavano gli animali per il cibo e usavano la loro pelle per fare il cuoio; la lavorazione delle pelli animali per ottenere un prodotto idoneo all’uso è considerata una delle più antiche attività umane; le pelli ottenute venivano usate, inizialmente, per vestiti e tende. Secondo il racconto biblico (Genesi, III, 21), il primo uso di pelli per abiti si può far risalire al primo Uomo: “E fece il Signore ad Adamo ed alla sua Donna delle tonache di pelle, delle quali li rivestì”.
Una panoramica degli oggetti prodotti da pelle, cuoio e pelliccia da evidenze storiche ed archeologiche è illustrata nella Figura 1.

Figura 1: Possibili usi di pelle, pelliccia e cuoio basati su reperti archeologici, fonti scritte e iconografia
Dalla classificazione riportata in figura 1 è possibile distinguere diversi gruppi di oggetti, ciascuno con distinte funzioni (costumi e abbigliamento, attrezzature di lavoro, equipaggiamento militare, oggetti legati agli animali, oggetti per la casa, spazi abitativi, ecc.)
Quale sia stato il primo tipo di concia impiegato dall’uomo riesce difficile poterlo stabilire; tuttavia, è possibile sostenere che la concia si sia sviluppata gradualmente dal momento in cui l’uomo ha imparato a produrre il fuoco ed a conservare i cibi (carne e pesce) con l’affumicatura. Infatti, la “concia al fumo” è in realtà una concia all’aldeide tenuto conto che la combustione delle foglie e/o dei rami produce, tra l’altro, sostanze di natura aldeidica in grado di reagire con il collagene della pelle. Inoltre, la combustione lenta ed incompleta del legno produce anche ulteriori sostanze ad azione conciante ed antimicrobica come i composti fenolici. Quindi, è presumibile che l’uomo si sia avveduto delle modificazioni vantaggiose che subisce una pelle posta avanti o al di sopra dell’apertura di una caverna, dove sia acceso un focolare.
Anche la concia con i grassi è stata impiegata dai popoli primitivi, in particolare dagli abitanti delle regioni nordiche, adoperando il grasso stesso degli animali abbattuti, utilizzando ad esempio il loro materiale cerebrale (cervello), e successivamente anche altri grassi animali come l’olio di pesce, il giallo d’uovo, il grasso di foca e così via.
Nel bacino del mediterraneo furono, invece, utilizzati i sali minerali per la concia, come ad esempio l’allume, usati anche in Egitto e Mesopotamia. Al riguardo durante l’epoca romana si consumò tanto allume da esaurire l’importante miniera di Pozzuoli; ciò perché l’uso di questo prodotto fu molto diffuso, sia perché si usava come mordente in tintura sia perché permetteva di conciare in modo rapido e facile le pelli di piccole dimensioni. Mentre le pelli leggere erano conciate con i grassi o con l’allume, quelle più grandi erano trattate nelle fosse con sostanze di natura vegetale (quercia, pino, ecc.).
La concia al vegetale (concia al tannino), scoperta casualmente osservando la modifica della pelle a contatto con il liquido proveniente dal dilavamento di una corteccia tannifera, pur non essendo la più antica conosciuta dall’uomo acquistò nel corso dei secoli una importanza tale da rimanere, ancora oggi, uno dei più diffusi metodi di concia, in particolare, per certi tipi di articoli come ad esempio il cuoio suola. Per questa ragione il conciatore di pelli in francese è detto tanneur, in riferimento alla presenza di tannini nel liquido di immersione. Lo stesso termine in inglese è tanner.
Da quanto sopra si evince che il lavoro di trasformazione delle pelli grezze in cuoio vanta tradizioni millenarie e che esso è tra i materiali più versatili prodotti dall’uomo e per questo motivo è stato impiegato fin dall’antichità per una grande varietà d’uso; infatti, essendo un materiale naturale e durevole, esso è da sempre uno dei materiali più diffusamente utilizzati dall’uomo per la fabbricazione di calzature, capi di abbigliamento e oggetti d’uso quotidiano di vario genere; nessun altro materiale è comparabile al cuoio per un così ampio range di applicazioni.
I cuoi antichi, e soprattutto quelli medioevali, sono conservati abitualmente nei musei trattandosi di oggetti lavorati/decorati e di valore artistico; viceversa, è meno frequente trovare dei cuoi preistorici tenuto conto che trattasi, comunque, di materiali organici facilmente deperibili, soprattutto, in particolari condizioni ambientali. Tuttavia, in alcuni casi sono stati trovati reperti archeologici, concernenti manufatti in cuoio, eccezionalmente ben conservati (scarpa ritrovata in Armenia e indumenti dell’Uomo del Similaun).
Scarpa in cuoio ritrovata in Armenia
Nel 2008, una scarpa in cuoio completa e ben conservata, in virtù delle particolari condizioni termoclimatiche della grotta (condizioni stabili, fresche ed asciutte), è stata ritrovata alla base di una fossa calcolitica nella grotta di Areni-1, sito archeologico di Vayots Dzor, Armenia (figura 2) ed è esposta nel Museo Nazionale di Storia di Erevan, la capitale.

Figura 2: A Scarpa in cuoio da Areni-1 (grande grotta carsica), Armenia, B. Mappa che mostra la posizione di Areni-1, C. zona dove è stata ritrovata la scarpa.
La scarpa è datata nel periodo 3653-3627 Avanti Cristo, nel periodo Calcolitico, l’età del rame e quindi risale a oltre 5500 anni fa. Per questo motivo, alla data del ritrovamento, è ritenuta la più antica scarpa scoperta in Eurasia . La scarpa è stata realizzata con pelle di natura bovina conciata (non ci sono indicazioni circa il sistema di concia impiegato), cucita con un laccio di cuoio; essa è lunga 24,5 cm (dimensione europea 37), larga 7,6 a 10 cm ed è costituita da un unico pezzo di cuoio che avvolgeva il piede. La scarpa era imbottita con erba (Poaceae) che potrebbe essere servita o a mantenere la forma del piede per le successive calzate oppure per consentire un migliore isolamento dal freddo, dalle piogge e dal fango.
L’Uomo del Similaun
Il 19 settembre 1991 una coppia di alpinisti rinvenne nei pressi del ghiacciaio del Similaun, tra l’Italia e l’Austria, quello che appariva come un corpo di una persona sepolta nella neve e nel ghiaccio (Fig.3). Il corpo del “Uomo venuto dal ghiaccio” è conservato al Museo Archeologico dell’Alto Adige di Bolzano; la sua ricostruzione è riportata in Fig.4. La mummia fu detta “ Uomo del Similaun o anche Uomo del Hauslabjoch” proprio per il luogo più vicino al punto del ritrovamento. Il soprannome Otzi gli venne, invece, dato da un giornalista: si tratta di un vezzeggiativo che deriva dal nome della valle di Otzal nel Tirolo del Nord.

Figura 3: Uomo venuto dal ghiaccio (mummia del Similaun) – Museo Archeologico dell’Alto Adige

Figura 4: Ricostruzione dell’Uomo venuto dal ghiaccio © Museo Archeologico dell’Alto Adige
Dalla datazione del Carbonio 14 (periodo dal 3350 al 3100 A.C., otre 5000 anni fa) è stato possibile collocare l’Uomo del Similaun nella cultura del tardo Neolitico (età del rame in Europa).
L’abbigliamento in cuoio di Otzi
Gli abiti dell’Uomo del Ghiaccio si mostrano di buona fattura e adeguatamente funzionali; in effetti, può essere, che gli indumenti di Otzi avessero un determinato scopo e servissero ad affrontare specifiche condizioni climatiche o di vita. Per quanto riguarda gli indumenti e l’equipaggiamento L’Uomo era evidentemente preparato ad affrontare la vita nell’alta montagna. I singoli capi di vestiario risultano per lo più composti di pezzi di pelliccia di piccolo o medio formato, cuciti insieme a “patchwork”( Fig.5). I sottili fili usati per cucire i vestiti sembrano per lo più ricavati da tendini di animali.
Per confezionare la sopravveste sono state utilizzate strisce chiare e scure di pelliccia di capra e di pecora, cucite insieme con tendini animali. Il capo veniva portato con il pelo rivolto all’esterno. Otzi portava, inoltre, una cintura stretta di pelle di vitello avvolta attorno alla vita con due giri. La cintura sosteneva anche un “perizoma” di pelle di pecora. I “calzoni” di Ötzi erano costituiti da due gambali lunghi circa 65 cm, confezionati cucendo insieme strisce di pelliccia di capra domestica e di pecora.
Le calzature di Ötzi sono composte da diversi strati: la scarpa interna è costituita da una rete in libro di tiglio, che teneva ferma l’imbottitura di erba secca con funzione di isolante termico. La scarpa esterna (tomaia) è in pelle di cervo e, come la rete, è cucita alla suola, in pelle d’orso, ma con il pelame rivolto all’interno.
Il copricapo (berretto), a forma di calotta, è costituito da varie strisce di pelliccia d’orso cucite insieme.
In sostanza, dallo studio del DNA di nove campioni di pelle e pelliccia dei reperti conservati al Museo Archeologico dell’Alto Adige di Bolzano, è emerso che l’Uomo del Similaun si serviva di pelli di animali domestici ungulati come vitelli, pecore, capre (per i gambali e la sopravveste), ma anche di animali selvatici come l’orso (per il cappello, la suola). “Questi risultati fanno pensare che nell’età del rame gli abitanti della regione alpina, nel fabbricare abiti, scegliessero le pelli sulla base delle loro specifiche qualità come, ad esempio, la flessibilità o il potere isolante del materiale.

Figura 5: Abbigliamento di Otzi – gambali, scarpe, copricapo, ecc.
La concia delle pelli indossate da Otzi
In linea di principio, è possibile ipotizzare quattro metodi di concia che potevano essere conosciuti o praticati al tempo di Otzi: concia con i grassi, concia al fumo, concia al vegetale, concia minerale. Le indagini analitiche, effettuate da esperti del settore cuoio, hanno evidenziato che il sistema di concia più probabile è quello concernente l’uso di grassi animali saponificati con cenere di legno che sono stati fisicamente incorporati nella pelle sotto forma di stearato di calcio. Questo trattamento consente di ottenere un adeguato effetto idrorepellente adatto per la pioggia e le condizioni alpine nevose ed umide della zona abitata da Otzi. Gli Autori della ricerca, sulla base dei risultati analitici riscontrati (elevata concentrazione di sali di calcio di acidi grassi saturi) sui vestiti, hanno sviluppato una procedura di concia, che potrebbe essere stata impiegata in quel tempo, ed applicata su una pelle di riferimento. I risultati ottenuti sono in buon accordo con quelli ricavati dagli abiti di Otzi.
Bibliografia
- Gansser A., Studio sulla presumibile concia all’età paleolitica, Cuoio, Pelli e Materie Concianti (CPMC), 13,10, 240-44, 1935
- Karina Grömer , Gabriela Russ-Popa & Konstantina Saliari, Products of animal skin from Antiquity to the Medieval Period, Annalen des naturhistorischen Museums in Wien, Serie a · January 2017
- Ron Pinhasi, Boris Gasparian, Gregory Areshian, Diana Zardaryan, Alexia Smith, Guy Bar-Oz, Thomas Higham, First Direct Evidence of Chalcolithic Footwear from the Near Eastern Highlands, Plos ONE, 5, June 2010
- Alois G. Püntener and Serge Moss, Ötzi, the Iceman and his Leather Clothes, Chimia 64, 315–320, 2010
- Anonimo, La Conceria, n.3, settembre 2016
Carl Djerassi, chimico e scrittore
Federico Maria Rubino
In occasione della morte di Carl Djerassi, nel 2015, il blog “Chimica e Società” ne ha pubblicato un breve ricordo biografico (https://ilblogdellasci.wordpress.com/brevissime/morto-carl-djerassi/), basato prevalentemente sulla sua attività professionale come chimico accademico e imprenditore, con solo un breve elenco delle opere narrative alle quali si dedicò chiudendo il suo laboratorio di ricerca a Stanford.
Nel centenario della nascita può essere utile gettare uno sguardo anche alla sua produzione letteraria [1,2], che comprende, tra l’altro, tre libri di memorie, una raccolta di poesie, due raccolte di racconti e 5 romanzi, 7 drammi teatrali e un saggio dialogico-biografico su quattro figure dell’intellettualità ebraico-germanica del Novecento. In traduzione italiana, il lettore può trovare la sua prima autobiografia, La Pillola, gli scimpanzè pigmei e i cavalli di Degas (Garzanti, 1994); Il Futurista e altre storie (Sellerio, 1993); i romanzi Il dilemma di Cantor (Di Renzo, 2003), Operazione Bourbaki (Di Renzo, 2005), NO (Di Renzo, 2006), Marx è morto (Di Renzo, 2011), i drammi Ossigeno (CLUEB, 2003), ICSI Il sesso nell’epoca della riproduzione meccanica (Di Renzo, 2004), Calcolo (Di Renzo, 2006).

Il primo romanzo, Il Dilemma di Cantor, inaugura la “science-in-fiction” come forma letteraria autonoma di academic (o campus) novel ambientata nella comunità scientifico-accademica e industriale, basata sull’autenticità sostanziale della scienza descritta e delle sue implicazioni. La sua comparsa, nel 1989, provocò non poca attenzione, principalmente sfavorevole, nell’ambiente accademico statunitense, che lo accusò di aver “lavato in pubblico i camici sporchi”, mostrando figure umane di varia spregiudicatezza descrivere apertamente, in una serie di a-parte dialogici [come quando, nel mezzo d’un’opera seria, s’alza, per isbaglio, uno scenario, prima del tempo, e si vede un cantante che, non pensando, in quel momento, che ci sia un pubblico al mondo, discorre alla buona con un suo compagno], i sentimenti e le azioni dell’ambizione scientifica, che giungono dalla Schadenfreude (riduttivamente, la gioia maligna per l’altrui caduta) fino alla Nobel lust, la foia da Nobel, passando per la temuta irriproducibilità degli esperimenti; e qui Djerassi si macchiò di spirito profetico, anticipando di quarant’anni una questione oggi esplosa nel suo carico di critiche radicali al sistema accademico, che provengono sia dal pubblico insoddisfatto, sia dall’interno dei professionisti amareggiati. Per contro, Cantor rimase per molti anni una lettura raccomandata per gli studenti di college in animo di intraprendere carriere universitarie orientate alla ricerca accademica. Uno specchio ancor più amaro è, in Italia, la narrativa di ambiente accademico del chimico-scrittore universitario Alessandro Pallavicini [3].
La, anzi, le successive autobiografie di Djerassi conducono il lettore nelle vicende di una famiglia ebraico-viennese che ben figurerebbe nelle atmosfere di Klimt, Schiele, Freud; nell’emigrazione avventurosa, attraverso la Bulgaria (unico stato europeo ad aver sottratto alla deportazione e allo sterminio la sua ben integrata popolazione ebraica), negli USA; la tenace e fortunata ripresa di una vita di studio e la precoce ricerca della stabilità esistenziale attraverso i successi professionali e la ricostruzione di vite familiari segnate da insuccessi e dolore; l’immersione, ormai uomo di successo, nella vita della California intellettuale e progressista degli anni ’60-70; il coinvolgimento quale figura di intellettuale pubblico nei dibattiti, allora ancora allo stato nascente, sui grandi temi di rilevanza planetaria: evoluzione dell’aumento della popolazione e scelte individuali, inquinamento ambientale e sicurezza dei pesticidi, diffusione della ricerca scientifica finalizzata alla soluzione dei problemi emergenti nei Paesi in fase di sviluppo. Ancora nello sfondo, vi aleggia la percezione del persistente antisemitismo statunitense (allora di matrice fondamentalista cristiana, sia cattolica, sia protestante), che ne pervade anche il mondo accademico; anche qui, anticipatore di una ricostruzione che solo recentemente Ray Monk ha riportato pienamente all’attenzione nella biografia di Robert Oppenheimer [4].
La “science-in-fiction” successiva trasporta Djerassi in tre ambiti apparentemente sempre più distanti dal laboratorio e dal campus, sempre con esiti che, a quarant’anni quasi di visione prospettica, continuano ad apparire profetici. Quattro senior scientists, spinte-o-sponte pensionati, prendono spunto dalle vicende dei matematici francesi del circolo Bourbaki per fabbricare, con metodi pre-informatici, l’identità di una giovane scienziata di precoce successo, il cui disvelamento come -appunto- il prodotto di una cooperativa di anziani tutt’altro che professionalmente decotti avrebbe dovuto illuminare sul danno culturale arrecato dal giovanilismo produttivistico dell’istituzione accademica statunitense. Il nodo col precedente Cantor è ancora una volta il sentimento incomprimibile di ambizione personale, che conduce uno dei quattro sodali a infrangere il patto, pur di veder riconosciuta a proprio nome la concezione prima della Polymerase Chain Reaction. Sinopia di Djerassi medesimo, un altro dei quattro accademici inizia contestualmente una nuova vita come compositore di poesia tradizionale giapponese.
È il Djerassi coinvolto, attraverso l’invenzione del componente attivo anticoncezionale, nella questione del controllo delle nascite e invitato come esperto agli incontri Pugwash il narrante del terzo romanzo, Il seme di Benjamin. Gli incontri riservatissimi a margine dei temi principali consentono a consiglieri e funzionari di affrontare temi scottanti di politica internazionale al riparo dall’attenzione del pubblico. Apparentemente a-latere, Djerassi sviluppa però, attraverso una complessa love story, il tema che particolarmente gli sta a cuore in quel periodo, ovvero quanto i progressi scientifici nella biologia umana andranno a modificare, e in che senso, la relazione tra la funzione riproduttiva e gli aspetti individuali e collettivi, affettivi e culturali della più fondamentale funzione umana. Andrà successivamente più a fondo, utilizzando un sequel del medesimo canovaccio narrativo, in due controverse pièce teatrali, Sex in an Age of Technological Reproduction: ICSI and TABOOS, nelle quali il dibattito si sposta dapprima sul sentire del bambino per autonoma scelta materna messo al mondo con la tecnica ICSI, e successivamente nel confronto serrato tra coppie statunitensi di contrapposto orientamento etico.
È poi il Djerassi più volte imprenditore innovativo nei settori ad alta tecnologia (suo, oltre la Pillola, il primo insetticida a base di feromoni naturali) il narrante di NO (proprio la formula dell’ossido di Azoto, molecola dell’anno 1992 e motivazione del Nobel del 1998 a Furchgott, Ignarro e Murad, nell’anno di pubblicazione del romanzo), in cui una coppia trans-nazionale di giovani ricercatori, un’indiana “deindianizzata” e statunitense, e un israeliano sabra con un doloroso retroterra familiare, fonda in California una start-up proprio basata su una sinopia, di concezione accademica, del reale sildenafil (Viagra) di concezione industriale. Sotto le mentite spoglie di numerosi personaggi sono celebrati gli amici e i colleghi di Djerassi incontrati tra Messico e California nel trasformare la piccola Syntex, rifugio e mantenimento di profughi ebrei nel Nuovo Mondo, nella grande industria farmaceutica californiana attiva fino al 1994. Assediano la piccola start-up Suriya gli squali legali della Silicon Valley, per una volta, con l’ottimismo del sopravvissuto, efficacemente sconfitti, in un guizzo di one-upmanship della protagonista.
Ancora la ricerca della gloria, più persistente dell’effimera fama, è il movens del quinto romanzo, apparentemente disallineato tra le opere narrative: l’affermato scrittore newyorkese Stephen Marx simula la propria morte in attesa di leggere non già le effimere recensioni dei propri titoli di successo, bensì il giudizio finale dei critici letterari sul complesso della sua opera, ora consegnata ai posteri. Sotto traccia vi è la considerazione delle affinità e delle differenze tra la creatività artistica, per definizione irripetibilmente personale e individuale, e quella scientifica, cumulativa e intrinsecamente ormai collettiva, nella quale la scoperta clou, quella che illumina lo scopritore della fama eterna, non può sfuggire al destino d’essere, in un certo modo, inevitabile, e in ciò, in parte, limitando la portata dell’imperitura fama al fortunato primo arrivato. Anche qui Djerassi da prova di spirito più volte profetico, gettando qua e là nel testo considerazioni sulla natura fortemente collaborativa della ricerca scientifica contemporanea, sul carattere trans-nazionale della sua forza-lavoro, sul carattere ormai inane delle classificazioni meritocratiche care al produttivismo accademico statunitense. In altra sede, ma entro il medesimo itinerario intellettuale, sarà il primo a proporre di sostituire alla “lista degli autori”, col suo ordine di beccata gerarchicamente organizzato (il dibattito dei primi e ultimi nomi è già nelle pagine di Cantor), con l’indicazione dei “contributors”, nello stile fatto proprio dall’industria cinematografica nei cinque minuti di titoli di coda e credits (produttore cinematografico e regista fu, in gioventù, il figlio Dale, artista morta prematuramente fu la figlia Pam, per la cui memoria Djerassi fondò la colonia artistica tuttora attiva; https://djerassi.org/).
Quello dell’attribuzione della priorità scientifica è un tema che Djerassi affronta ripetutamente anche nei drammi teatrali, a partire da Calculus, nel quale rivive lo spietato arrivismo di Isaac Newton nell’assicurarsi, attraverso una commissione accuratamente scelta e risolutamente manipolata, la dichiarazione di priorità su Gottfried Leibniz nell’invenzione del calcolo infinitesimale. Una successiva piéce teatrale, scritta a quattro mani col Premio Nobel Roald Hoffman, ripercorre attraverso una disputa sulla priorità nella “scoperta” dell’Ossigeno tra Scheele, Proust e Lavoisier (e le rispettive mogli, tra loro diversissime per temperamento e aspettative) i significati differenti del concetto medesimo di “scoperta” scientifica, tra aspetto materiale, teorie fallaci e teorie corrette, appropriazione e riconoscimento (mancato, da parte di Lavoisier) dell’altrui merito e contributo.
Persistente -e tutt’altro che sotterranea- nella narrativa djerassiana è la traccia ebraica, diversa e complementare nello spettro di identificazioni che sottende, nel medesimo spazio intellettuale, il rabbino ortodosso e antimodernista Chaim Potok, così come, collega di Djerassi a Stanford, lo psicoterapeuta filosofo Irvin Yalom, che ne fa, in parte, sinopia di un personaggio de La cura Schopenhauer [5]. Comune a Djerassi e a Yalom è il sentimento di essere emersi professionalmente a dispetto del sentimento di discriminazione che li vedeva facili bersagli nell’America conservatrice, e che Djerassi sublima nei personaggi di alcuni racconti de Il Futurista.
L’ultima delle sue creazioni è una riflessione che parte dall’arte pittorica di Paul Klee, del quale fu tra i maggiori collezionisti privati, e si centra su un disegno famoso, l’”Angelo della Storia” (Angelus Novus) pretesto della nota benjaminiana, successivamente in possesso di Quattro Ebrei sul Parnaso, Walter Benjamin, Theodor Adorno, Gershom Scholem e Arnold Schönberg. Con le rispettive mogli, essi si incontrano sul mitologico monte della gloria letteraria, rivangando le vicende intrecciate delle rispettive vite, nell’atmosfera arroventata del Breve Novecento. Il Djerassi mecenate artistico commissionò per la versione teatrale di questo saggio dialogico anche musiche originali da artisti contemporanei.
Crocianamente, “cosa è vivo e cosa è morto, oggi” dell’opus narrativo djerassiano, di mole e varietà inconsueta per un ricercatore scientifico attivo quale fu, per oltre quarant’anni?
Certamente, antevide e affrontò, col meglio dei mezzi intellettuali del Nuovo Mondo e col retaggio culturale del Vecchio, nodi cruciali della vita di una corporazione professionale, proprio negli anni nei quali essa stava iniziando a innovare, al proprio interno, obiettivi e relazioni -che egli vede inesorabilmente come risolute relazioni di Potere, così all’interno come proiettate all’esterno- rese differenti, in modalità e misura dirompenti, rispetto alla tradizione europea, ineluttabili nel plasmare i destini individuali di quanti sono stati attirati nella condizione del “nuovo clero”.
Altrettanto certamente, la realtà, a quasi quarant’anni da Cantor, ha sopravanzato sia le immaginabili scoperte scientifiche del tardo Novecento, sia le relazioni che sono da esse venute a scaturire. La cura per la genuinità della produzione scientifica è divenuta, in un incubo benjaminiano, “La pubblicazione scientifica nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”; la start-up la forma più diretta di trasmutazione del ricercatore in imprenditore, di Mime in Albrich; la scienza militante, un ambiente di lavoro altamente conflittuale e progressivamente impoverito di contenuti intellettuali ed etici.
A segnalarci ancora gli iceberg nella nebbia è rimasto, sentinella precoce, Carl Djerassi.
Note
[1] https://en.wikipedia.org/wiki/Carl_Djerassi contiene un elenco quasi completo delle opere letterarie. È ancora attivo il sito https://www.djerassi.com/ che riporta, talvolta in modo fruibile, le opere nelle principali versioni parzialmente differenti apparse in occasioni diverse, persino in forma congiunta americano-tedesca.
[2] Grünzweig, Walter, ed. (2012). The SciArtist: Carl Djerassi’s Science-in-Literature in Transatlantic and Interdisciplinary Contexts. Berlin et al.: Lit Verlag. ISBN 978-3-643-90231-3
[3] Pallavicini, Piersandro. Atomico Dandy (Feltrinelli, 2005), La chimica della bellezza (2016)
[4] Monk, Ray. Robert Oppenheimer: A Life Inside the Center. (Doubleday, 2012).
[5] Yalom, Irvin D. La cura Schopenhauer (Neri Pozza, 2009)
Quale futuro per la depurazione delle acque in Europa?
Mauro Icardi
La salute dei bacini idrici e dei corsi d’acqua è costantemente minacciata dagli agenti inquinanti originati dalle attività umane. Le acque reflue civili ovvero l’insieme delle acque reflue domestiche e di attività economiche non tipicamente industriali, costituiscono una delle fonti di potenziale inquinamento dei corpi idrici. A queste si devono aggiungere le acque meteoriche, derivanti dal drenaggio urbano delle città, che rappresentano una non indifferente causa di inquinamento, specialmente quando, in caso di forti piogge o alluvioni, l’attivazione degli scaricatori di piena porta a un loro sversamento direttamente nei corsi d’acqua superficiali.
La crescente antropizzazione e l’emergere di nuovi inquinanti in concentrazioni sempre più elevate richiedono azioni di continuo adeguamento tecnico nella depurazione dei reflui. Ma un trattamentodepurativo delle acque reflue più spinto comporta inevitabilmente un maggiore consumo di energia e un aumento dei volumi dei fanghi prodotti e da gestire.

Il Consiglio Ue ha approvato lo scorso 16 Ottobre il testo della direttiva per la revisione delle norme sul trattamento delle acque reflue. Potrà così prendere il via il negoziato con il Parlamento per arrivare a una stesura condivisa del provvedimento che dovrà poi essere approvata in via definitiva, sia dal Consiglio che dal Parlamento Europeo. Il contenuto della proposta di revisione non si limita al solo aggiornamento della lista delle sostanze inquinanti da monitorare e rimuovere, ma propone di ripensare la depurazione delle acque come anello di congiunzione di una economia circolare e sostenibile.
Una prima importante novità riguarda l’estensione dei soggetti che dovranno rispettare la nuova direttiva, estendendola agli impianti di depurazione con potenzialità inferiore ai 2.000 Abitanti Equivalenti (A.E.).
Si tratta di una proposta completamente nuova e direi anche impegnativa per le aziende di gestione del ciclo idrico. La ragione è semplice e deriva da quello che ho acquisito con l’esperienza. Ovvero che sia relativamente più facile la gestione degli impianti centralizzati di maggiori dimensioni, rispetto a piccoli impianti che in generale hanno portate spesso irrisorie e sono maggiormente soggetti alle variazioni di portata e carico inquinante. Oltre a questo, generalmente impianti di questa dimensione e potenzialità sono spesso ubicati in zone periferiche e difficilmente raggiungibili, oppure in zone collinari o montane. Dal punto di vista operativo ed economico non ha senso tenere personale fisso per il presidio di questi impianti, ma vengono inviate squadre di addetti che giornalmente effettuano le normali operazioni di conduzione e manutenzione. Se la direttiva verrà trasformata in legge la mia opinione personale è che si dovrebbe valutare la possibilità tecnico/economica di collettare i reflui di questi impianti, destinando il carico di acque reflue presso impianti più grandi con potenzialità depurativa residua. Su questo punto la proposta prevede l’estensione degli obblighi di collettamento e allacciamento alla rete fognaria e agli impianti di depurazione agli agglomerati tra i 1.000 e i 2.000 A.E. (“piccoli agglomerati”), con un tempo di adeguamento stringente, ovvero entro il 31 dicembre 2030. Su queste basi anche i reflui provenienti da centri abitati minori dovranno essere convogliati all’interno di un sistema monitorato e standardizzato per la depurazione, garantendo che siano sottoposti almeno ad un trattamento secondario e quindi osservare il rispetto delle concentrazioni massime per gli inquinanti previste dalla normativa.

Al pari degli altri settori produttivi, anche la depurazione delle acque reflue è chiamata a ridurre le proprie emissioni climalteranti, efficientare il proprio consumo di energia, migliorare la gestione dei fanghi e potenziare il riuso sicuro delle acque trattate.
Vi è poi la proposta di integrare un ulteriore trattamento aggiuntivo (definito in maniera non felicissima ditipo quaternario), avente lo scopo di trattare quelle sostanze presenti nelle acque reflue per le quali sino ad oggi non erano previsti obblighi di trattamento (microinquinanti, sostanze di origine farmaceutica o chimica presenti nelle acque che di per sé non rappresentano un pericolo per la salute umana o per
l’ambiente, ma che possono diveltarlo se presenti in concentrazione elevata o in combinazione con altre sostanze). Questo è certamente l’aspetto di maggiore novità ed impatto. La diffusione ubiquitaria dei nuovi inquinanti, che dal punto di vista lessicale non ha più senso definire emergenti, era ovvio dovesse portare ad una loro regolamentazione sia dal punto di vista dei limiti di emissione, che da quello dei trattamenti applicabili per la loro rimozione.
Il percorso di adattamento previsto è graduale, con i primi obblighi che scattano al2030 fino a giungere alla completa applicazione entro il2040. Nel testo della proposta di revisione la Commissione UE prevede di voler garantire un monitoraggio costante degli inquinanti presenti nelle acque reflue, applicato in modo uniforme in tutti gli Stati membri, in modo tale da evitare che una differente modalità di trattamento in un territorio possa comportare conseguenze negative per gli altri. La maggiore e più capillare conoscenza dello stato delle acque reflue si applicherà anche valutando il rischio potenziale per la salute umana. Il monitoraggio riguarderà quindi non solo le sostanze tossiche o gli inquinanti, ma anche gli agenti patogeni che possono causare la diffusione di malattie, come hanno insegnato questi anni segnati dalla pandemia di COVID-19.
La commissione europea ha pubblicato alcune stime sul costo degli interventi e degli investimenti necessari: si prevede una spesa di intervento pari a 3,8 miliardi di euro l’anno fino al 2040, dei quali il 50% saranno coperti dalle tariffe idriche, con un incremento medio delle tariffe europee del 2,3%. Prevedo che questo punto sarà uno di quelli maggiormente critici, soprattutto per buona parte della pubblica opinione. Io su questo blog ho già espresso la mia opinione. La ripeto qui: acqua pubblica, acqua bene comune sono concetti che sono universali. Consegnare l’acqua alle multinazionali o al mercato è aberrante e rischioso. Fatta la doverosa premessa, acqua pubblica non significa acqua gratis tout court. Gli inquinanti che abbiamo disperso nei decenni nell’ambiente derivano anche dalle nostre scelte personali e dal nostro consumismo compulsivo.

L’industria e la pubblicità ci hanno dato quello che abbiamo desiderato, consciamente o inconsciamente. Ora si tratta di riparare a quei danni. Per farlo occorrono tecnologie e soluzioni adatte, e queste hanno ovviamente un costo di trattamento.
Una delle novità più incisive della proposta di revisione è l’obbligo per gli agglomerati urbani con più di 100 mila A.E. di redigere entro il 31 dicembre 2030 ipiani integrati di gestione delle acque reflue urbane. Si dovrà programmare una corretta gestione integrata delle acque reflue urbane, con particolare attenzione alle acque meteoriche, così da ridurre il rischio di inquinamento diretto dei corsi d’acqua in conseguenza di piogge copiose o eventi alluvionali. Si dovrà cercare di ridurre il volume delle acque meteoriche che entrano nel sistema di collettamento delle acque reflue, e si prevedono interventi per ottimizzare l’uso delle infrastrutture già esistenti, inclusi i sistemi di collettamento, le capacità di stoccaggio, la verifica degli impianti di trattamento già esistenti con l’obiettivo di assicurare che le acque meteoriche inquinate siano raccolte e opportunamente trattate.
Nella redazione dei piani integrati di trattamento delle acque credo vada colta l’occasione per estendere la valutazione dei potenziali rischi derivanti dai cambiamenti climatici che possono incidere sulla funzionalità delle reti di collettamento, dei manufatti di sollevamento e di sfioro, e sugli impianti di depurazione permettendo di identificare eventuali misure di adattamento delle infrastrutture al cambiamento climatico.
Per quanto riguarda la realizzazione di nuove infrastrutture viene data priorità, alla creazione di infrastrutture verdi, quali interventi di rinaturalizzazione, zone umide di filtrazione e stagni di raccolta delle acque piovane (fitodepurazione). Ma vorrei ricordare che una struttura di fitodepurazione va inserita in un contesto più ampio, e che alcuni stadi di trattamento (grigliatura e rimozione delle sabbie per esempio) non possono essere eliminati. È una tipologia di trattamento che va progettata con attenzione e gestita con accortezza e che funziona bene con carichi inquinanti non troppo elevati.
La proposta della commissione europea è ambiziosa. Non so in quanto tempo sarà recepita, e quali ricadute reali avrà nel futuro. È una proposta che individua alcuni temi su cui si dibatte da anni (gestione acque meteoriche, manutenzione delle reti fognarie, inquinanti emergenti). La mia speranza è che la montagna non partorisca il solito topolino. Mi piacerebbe anche che come sempre sostengo, il tema della gestione del ciclo idrico venisse inserito, almeno nelle sue linee essenziali, nei programmi scolastici della scuola primaria e della scuola secondaria inferiore.
Il REACH è in pericolo?*.
Luigi Campanella, già Presidente SCI
Il pericolo ventilato in più sedi che il Regolamento Europeo REACH per le sostanze chimiche non venga aggiornato come previsto o peggio possa essere dismesso è un colpo mortale ai principi di sostenibilità ed etica che la comunità chimica ha difeso con successo durante lunghi anni di dibattiti fino al raggiungimento di faticosi equilibri basati su innovazione scientifica, compatibilità economica, etica.
Mi sono da sempre battuto contro la sperimentazione animale e nella direttiva 3R, correlata al REACH, avevo trovato motivo di speranza, ai quali non vorrei rinunciare anche perché il tema torna ad essere caldo e richiederebbe sul tema un aggiornamento rispetto a quanto di recente internazionalmente concordato.

L’accordo internazionale 2023 per i Cosmetici Umani è infatti finalizzato a restringere fino alla inibizione completa la sperimentazione animale per la produzione di cosmetici. Se l’accordo diventerà legge saranno vietate alcune attività oggi in corso e sarà vietato il trasporto e la vendita di cosmetici basati su sperimentazione animale. Questa non è assolutamente indispensabile per determinare la sicurezza dei cosmetici per uso umano né questi test sono richiesti dalla Food and Drug Administration che non li richiede per autorizzare l’ingresso nel mercato.
D’altra parte questa posizione è logica se si pensa che la FDA è uno dei sostenitori e promotori della direttiva delle 3 R, riduzione, affinamento, sostituzione della sperimentazione animale con metodologie alternative. Malgrado ciò numerose compagnie produttrici di cosmetici continuano ad applicare la sperimentazione animale in laboratori dove dolore ed invasività stressano animali fino alla morte. La speranza è che dall’accordo Internazionale scaturiscano leggi dalle quali gli animali possano essere rispettati e protetti più che al presente. Con riferimento agli Stati Uniti dieci Stati hanno dato seguito all’accordo bandendo la vendita di cosmetici prodotti basandosi su sperimentazioni animali. È un bel segno di civiltà e di etica, ma non è sufficiente. È necessario che i testi delle leggi in atto siano condivisi e promossi in tutto il mondo
Per porre fine una volta per tutte alla sperimentazione animale in Europa, rafforzando sia il divieto ai test cosmetici sia contrastando i test per le sostanze chimiche che prevedono l’uso di animali, i cittadini possono aderire all’iniziativa Save cruelty-free cosmetics firmando la petizione.
https://crueltyfreeeurope.org/save-cruelty-free-cosmetics

Il divieto di sperimentazione dei cosmetici sugli animali è stato salutato nel 2013 come un evento storico, tuttavia, a causa di una mancata armonizzazione tra il Regolamento europeo sui prodotti cosmetici e quello sulle sostanze chimiche Reach dell’Ue, all’Agenzia europea per le sostanze chimiche (ECHA), questa pratica risulta ancora consentita.
Tra gli animali domestici più utilizzati dalla ricerca scientifica, anche in ambito cosmetico, ci sono topi, ratti, gerbilli, criceti e porcellini d’India. Lo stesso termine “cavia”, utilizzato nel linguaggio comune per indicare ogni tipo di animale sottoposto agli esperimenti, deriva da Cavia porcellus, nome scientifico del più noto porcellino d’India.
Non c’è dubbio che gli animali su cui sono stati testati i cosmetici non sono più del tutto sani. Il contatto con sostanze nuove e sconosciute provoca caduta dei capelli, dolore, lesioni cutanee, inappetenza e apatia. Il contatto prolungato con miscele chimiche, creme, gel e antitraspiranti provoca malattie croniche in alcuni animali Gli ingredienti artificiali applicati sulla loro pelle a fasi alterne fanno perdere irreparabilmente la salute agli animali tenuti nei laboratori. Man mano che la consapevolezza dei consumatori cresce, le persone diventano molto più interessate al destino degli animali e al modo in cui vengono trattati nei laboratori. Le persone si chiedono sempre più quale ruolo abbiano gli esseri viventi nella produzione di cosmetici e fino a che punto sia legittimo utilizzarli. La procedura di sperimentazione animale suscita polemiche in tutto il mondo. Anche i più grandi marchi cosmetici di respiro internazionale sembrano volere abbandonare progressivamente la sperimentazione animale e optare per tecnologie nuove e innovative. Ma questa tendenza sarà salva se il REACH non sarà aggiornato, o lo sarà con colpevole ritardo o peggio ancora sarà dismesso?
*Nota del blogmaster: il mancato aggiornamento REACH è stato denunciato ripetutamente ma solo sulla stampa internazionale (Le Monde e The Guardian), mentre la nostra grande stampa ha taciuto del tutto questo evento: la scomparsa dell’adeguamento delle regole REACH che era in programma nell’agenda del governo UE attuale (il famoso Green Deal). Al momento la cosa è scomparsa anche dall’agenda von der Leyen del prossimo anno, con la motivazione che l’anno prossimo ci saranno le elezioni europee. Questa scelta non riguarda solo i cosmetici (come scritto nel post) ma tutte le sostanze chimiche prodotte e commercializzate in Europa a partire dai PFAS a finire alle sostanze con azioni endocrine oltre agli inquinanti tradizionali (pesticidi e metalli pesanti). Torneremo sul tema, ma di primo acchitto sembra proprio una scelta spinta dalle azioni di lobbying dell’industria chimica europea che vuole rimandare o impedire le scelte necessarie per difendere la salute e l’ambiente, in nome di principi esclusivamente economici.
Da leggere:
Un riassunto in italiano dei problemi si può leggere sul seguente link:
L’Europa vuole abbandonare il divieto di sostanze chimiche pericolose dopo le pressioni dell’industriaIn memoria di Ian Wilmut.
Luigi Campanella, già Presidente SCI
L’11 settembre scorso è morto Ian Wilmut, il creatore della pecora Dolly. La pecora Dolly ha dimostrato che il nucleo di una cellula adulta del corpo può contenere tutta l’informazione biologica necessaria per fare un organismo e che il nucleo di molte cellule adulte può essere rieducato a condurre in porto lo sviluppo corporeo di un intero organismo.

È una avventura iniziata nel 1952 con Briggs e Kingston che trapiantarono il nucleo di una cellula embrionale di rana nell’ovocita di un animale adulto, che è continuato con Wilmut e prosegue con la clonazione di maiali, mucche e conigli. In ballo c’è sempre l’essenza stessa del soggetto. La morte di Ian Wilmut padre della pecora Dolly, il primo animale clonato a partire da una cellula adulta, non può fare a meno di riattualizzare un dibattito etico fra chi sostiene l’importanza della creazione di Dolly con i risultati che ne sono derivati per le ricerche sulle staminali e sugli organi coltivati e chi ritiene che con la creazione di un organismo animale si sono infrante le barriere dell’etica in parte in linea con lo stesso Wilmut, che rifiutò qualsiasi test su esseri umani.
Oggi, malgrado una posizione contraria del Parlamento Europeo, limitandoci agli animali non umani sono una ventina le specie di mammiferi che vengono clonati con successo, anche a scopo biomedico. C’è anche chi punta con questa tecnica a riportare in vita specie estinte, ma questo traguardo contrasta con il fatto che il DNA, il cui nucleo è indispensabile alla clonazione, si degrada con il passare del tempo. Peraltro la clonazione ha già dimostrato di riprodurre una copia imperfetta, ad esempio nel caso di Dolly invecchiata precocemente a seguito di una forma di artrite molto debilitante. Wilmut sperava con la sua ricerca di arrivare alla cura delle patologie come il Parkinson, di cui soffriva, ma non vi riuscì, tanto che a questa patologia è dovuta la sua morte a 79 anni.
Senza le sue ricerche però non si sarebbero scoperte le cellule staminali indotte alle quali si deve il premio Nobel a Shinya Yamanata nel 2012. Resta il tabù della clonazione di umani, oggi la clonazione umana è vietata ed il Parlamento Europeo ha anche detto no alla clonazione di tutti gli animali per fini alimentari, gli unici fini ammessi rimanendo la ricerca medico-scientifica e la conservazione di specie a rischio.

https://it.wikipedia.org/wiki/Clonazione
Nota del blogmaster: Pochi sanno da cosa dipende il nome della pecora; il nucleo derivava dal tessuto mammario della pecora donatrice; Dolly, viene dal nome di Dolly Parton una cantante country americana, definita la regina della musica country (vendette oltre 60 milioni di dischi) ma famosa anche per il suo aspetto fisico.