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Legame covalente C-C con un solo elettrone
DiegoTesauro
Il titolo di questo post avrà sicuramente lasciato alquanto interdetti la maggioranza dei lettori. E’ ben noto che la formazione di un forte legame covalente implica la condivisione fra atomi di almeno una coppia di elettroni. In realtà gli atomi possono interagire in differenti modi e Linus Pauling nel 1931 aveva previsto la formazione di un legame con la compartecipazione di un solo elettrone [1]. Il due volte premio Nobel aveva così definito la stabilità di un legame a singolo elettrone mediante energia di risonanza: Un legame ad un elettrone stabile può formarsi solo quando sono concepibili due stati elettronici del sistema con essenzialmente la stessa energia, gli stati differiscono in quanto per uno c’è un elettrone spaiato legato a un atomo, e per l’altro, lo stesso elettrone spaiato, è legato al secondo atomo. Questo criterio poteva essere soddisfatto o nella molecola H2+ oppure nella molecola H3+ .In realtà l’estrema reattività di queste specie e le tecnologie a disposizione all’epoca avevano reso impossibile verificare l’esistenza di questo legame fino agli anni novanta quando venne messo in evidenza l’esistenza di un legame ad elettrone singolo fra due atomi di fosforo [vedi nota a piè pagina]. Recentissimamente è stato pubblicato sulla rivista Nature il primo caso di un composto relativamente stabile con un legame a singolo elettrone fra due atomi di carbonio [2]. Finora però i legami C-C ad un elettrone non erano stati isolati. È importante notare che, sebbene le specie con legami C-C a un elettrone di tipo σ sono stati proposti come intermedi nelle reazioni chimiche come il riarrangiamento di Cope https://it.wikipedia.org/wiki/Riarrangiamento_di_Cope , non vi era alcuna prova sperimentale, ad esempio di tipo cristallografico a raggi X, per legami sigma a un elettrone tra atomi di carbonio. Ora questa ricerca potrebbe sembrare una semplice curiosità di un composto “esotico”. In realtà questo risultato, oltre a validare la teoria di Pauling di un legame covalente ad un elettrone, può aprire la strada ad un ulteriore sviluppo in diverse aree della chimica, esplorando il confine tra stati legati e non legati.
Per ottenere questo risultato gli autori dello studio sono partiti da un derivato dell’esafeniletano, in quando questa specie può essere ossidata generando i trifenilmetil catione ed i trifenilmetilradicale che notoriamente sono dei carbocationi e radicali stabili.
Il composto di partenza contiene due unità di spiro-dibenzocicloheptatriene (Figura 1a 1). Questo composto ha un legame fra gli atomi C1 e C2 di 1.8 Å molto allungato per ragioni steriche maggiore di un normale legame C-C ad 1.6 Å. Questa caratteristica genera la possibilità di una ossidazione con perdita di un elettrone di legame. Infatti il composto 1 trattato con iodio viene ossidato producendo la specie con un legame ad un elettrone (Figura 1a 1•) e la specie I3–. La presenza del legame σ C-C a un elettrone è stata confermata sperimentalmente dall’analisi di diffrazione a raggi X a cristallo singolo in quanto la lunghezza del legame (2.921(3) Å a 100 K) è inferiore al doppio del raggio di Van der Waals degli atomi di carbonio 3.4 Å. Un’ulteriore ossidazione genera la specie biscationica (Figura 3a 12+)
Figura 1 a, Conversione redox del composto 1. b-d, strutture a raggi X di 1 (b), di 1• +I3− (d) a 100 K e 1 2+(I3−)2 (c) a 110 K. Nella tabella sottostante le distanze di legame Copyright Nature
Ulteriore conferma gli autori l’ottengono dalla spettroscopia Raman, e teoricamente dai calcoli della teoria del funzionale della densità. L’importanza di legami ad un solo elettrone possono essere di supporto anche nello studio della chimica organica nello spazio e quindi allo studio della formazione di quelle molecole che poi hanno dato la possibilità della presenza della vita sulla Terra.
Riferimenti
[1] Pauling, L. J. Am. Chem. Soc. 53,3225-3238 (1931) https://testpubschina.acs.org/doi/10.1021/ja01360a004
[2] Shimajiri, T. et al. Nature (2024). https://doi.org/10.1038/s41586-024-07965-1
NOTA
Con l’avvento delle moderne tecniche di analisi è stato possibile evidenziare inizialmente la presenza di un legame fosforo-fosforo a singolo elettrone [3] Era stato isolato un analogo del tetrafosfobenzene diradicalico. Le analisi mediante la spettroscopia NMR e la diffrazione ai raggi X (Figura 2) hanno permesso di concludere che il derivato triciclico presenta legami fosforo-fosforo a un elettrone, che derivano dall’interazione π*-π* tra due radicali difosfirinili.
Figura 2 Struttura della molecola. La lunghezza del legame in angstroms è P1–P2, 2.205(3); P1–P2a, 2.634(3); P1–C1, 1.743(6); P2–C1, 1.738(6); C1–N1, 1.336(7). La lunghezza del legame P1-P2a è maggiore di qualunque legame fosforo-fosforo riportato in letteratura, ma inferiore al doppio del raggio di Van der Waals (3.8 Å) Copyright Science
L’esistenza di un legame fosforo-fosforo fu dimostrata qualche anno dopo anche mediante la spettroscopia EPR anche per la molecola 2,6-Bis(trimetilsilil)-3,5-dimethilfosfinina [4] (Figura 3) che ha permesso anche la caratterizzazione di un legame B-B, successivamente confermato da una caratterizzazione cristallografica, integrata da una dettagliata validazione quantomeccanica, per un anione radicale caratterizzato da un B-B [5]. Gli esempi però rimanevano confinati a questi due elementi.
Un interessante studio, una decina di anni fa, diede conferma della possibilità di isolare specie al di là della fase gassosa o in matrice solida instabili anche fra elementi diversi [6]. In particolare fu isolato e caratterizzato un complesso con legame ad un elettrone Cu−B, come così come la specie ad essa collegata ossidata (con gli atomi di fosforo non legati) e ridotta (con i due atomi legati da due elettroni) (Figura3). Questa triade ha fornito un’ottima opportunità per studiare il grado di legame sigma in un metallo boro in funzione del numero di elettroni condivisi.
Figura 3 In alto le specie caratterizzate mediante spettroscopia EPR con legame ad un elettrone P-P e B-B, confermato mediante spettorscopia a raggi X [4][5]. In basso i complessi di rame in cui il complesso al centro può ridursi o ossidarsi rispettivamente rompendo il legame a singolo elettrone oppure formandone uno con una coppia di elettroni [6].
[3]Canac, Y. et al. Science 279, 2080–2082 (1998) https://doi.org/10.1126/science.279.5359.20.
[4] Cataldo, L. et. al. J.Am. Chem. Soc. 123, 6654−6661 (2001) “https://doi.org/10.1021/ja010331r
[5]Huebner, A. et. al. Angew Chem Int Ed Engl 53(19), 4832-4835 (2014) “https://doi.org/10.1002/anie.201402158
[6]Moret, M.E. et al. J. Am. Chem. Soc. 135, 3792–3795 (2013). https://doi.org/10.1021/ja4006578
Farmaci naturali
Luigi Campanella, già Presidente SCI
I prodotti naturali presenti nelle piante medicinali rappresentano un’importante fonte di nuovi farmaci in quanto contengono migliaia di ingredienti attivi con nuove strutture e caratteristiche uniche. Sebbene un gran numero di prodotti naturali attivi siano isolati dalle piante medicinali le basi farmacodinamiche di alcuni di essi sono ancora non definite ed il meccanismo di correlazione struttura/attivitá non completamente chiaro, il che ha limitato lo sviluppo di nuovi farmaci naturali.
Una recente rassegna ha però dimostrato con il censimento delle ricerche di settore che malgrado quanto detto i risultati recenti sono numerosi.
I fitati, composti organofosforici prodotti dalle piante sono stati applicati alla produzione di farmaci antiossidanti, antitumorali, capaci di contrastare la calcificazione patologica nel sangue venoso e negli organi però con effetti secondari negativi dovuti alla loro capacità di ridurre l’assorbimento di minerali, importante per mantenere l’impostazione del corpo umano.
Acido fitico
I derivati dalla chinossalina hanno dimostrato di essere efficaci agenti ipoglicemici, risultando più attivi dei composti del piombo e comparabili al composto di controllo, il pioglitazone
Chinossalina e pioglitazone
Gli antiossidanti naturali sono probabilmente la classe più numerosa di farmaci naturali sia per interventi diretti a contrastare il danno cellulare quando prodotto, sia come integratori per una dieta antiossidante. La rutecarpina, un alcaloide naturale pentaciclico isolato da erbe cinesi, ha dimostrato attraverso meccanismi diversi di esercitare azioni farmacologiche positive rispetto a patologie diverse; oggi con i suoi derivati si cerca una più diretta finalizzazione e specificità.
Rutecarpina
Dalle foglie di origano è stato estratto una miscela di polifenoli a forte attività antiepilettica da attribuire probabilmente responsabilizzare alla miscela quercetina, acido caffeico ed ai loro metaboliti. La nanosospensione dell’estratto è risultata anti batterica, antiossidante, antidiabetica, citotossica. È stata studiata l’identificazione online dei costituenti della radice di Polygonum multiflorum. L’analisi cromatografica ha evidenziato ben 152 composti,di cui 50 antrachinoni, 21 flavonoidi,7 naftaline. Dal fungo endofitico Bipolaris del kiwi sono stati isolati, dotati di attività antibatteriche, 5 sono sesquiterpenoidi.
13 nuovi terpenoidi estratti dal kiwi; i primi 5 sono i sesquiterpenoidi
Il ritorno ai farmaci naturali storicamente ci collega agli anni 70 quando dopo il boom farmaceutico venne monitorata una crescente concentrazione di farmaci nell’ambiente dovuta ad un abuso da parte dei cittadini, ad una sovrapproduzione industriale, ad una inadeguatezza tecnica dei depuratori.
Il ramo fitoterapico, basato su principi attivi di piante medicinali in grado di originare un’attività farmacologica nell’organismo, è complementare a quello della scienza medica tradizionale che trova le proprie radici nei farmaci chimici (detti anche di sintesi). Si parla a tutti gli effetti di medicinali e sono ufficialmente approvati dall’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) che ne verifica sicurezza ed efficacia
Questi rimedi naturali sono indicati nelle terapie a lungo termine come arteriosclerosi, osteoporosi e obesità, grazie alla quasi assenza di rischi ed effetti secondari. Negli ultimi anni si è verificato un grande interesse per questo tipo di medicina per evitare proprio gli effetti collaterali della medicina moderna, ma sebbene con meno rischi, è sempre consigliabile consultare un medico prima di affrontare una terapia a lungo termine: le sinergie tra farmaci ed erbe portano comunque a qualche rischio.
La fitoterapia va considerata come un rimedio per alleggerire i disturbi o un integratore alimentare per mantenere la salute di spirito e corpo. Quando si utilizza un integratore alimentare o trattamenti fitoterapici, si consiglia di non superare le dosi giornaliere consigliate. Gli integratori non vanno intesi come sostituti di una dieta variata ed equilibrata ed un sano stile di vita.
Storicamente va ricordato, come già accennato più sopra, che questo avvicinamento alla farmacologia naturale era già stato osservato negli anni 70 quando come risultati del boom farmacologico furono monitorate crescenti concentrazioni di farmaci nell’ambiente delle quali furono considerate responsabili le inadeguate capacità depurative degli impianti, gli eccessi produttivi, gli abusi dell’utenza.
Fu proprio la chimica a lanciare l’allarme con metodi sempre più sensibili e selettivi di monitoraggio dei farmaci.
Pomate e rettili estinti.
Mauro Icardi
Ricordi d’infanzia si legano al mio presente odierno. Mia madre aveva sempre un armadietto dei medicinali rifornito dell’indispensabile, per le piccole medicazioni. Non mancava mai una pomata all’ittiolo. Quel nome particolare mi incuriosiva. Quando mi sono trasferito in Valceresio mi sono trovato immerso in una sorta di Jurassic Park prealpino. Nelle vecchie miniere delle Piodelle di Besano, comune che confina con quello di Arcisate dove risiedo, sono stati rinvenuti eccezionali ritrovamenti fossili durante gli scavi paleontologici del dopoguerra. In quel sito minerario si estraeva scisto bituminoso, inizialmente utilizzato alla fine dell’Ottocento per ricavarneolio di illuminazione per le lampade.
Nel 1830 furono condotti studi sulla produzione di gas per l’illuminazione stradale di Milano ma questo, come anche altri progetti, vennero ben presto accantonati.
Ma quando il medico tedesco Paul Gerson Unna, scoprì l’azione dermatologica dell’ittiolo (ovvero ictammolo, o ammonio-solfo-ittiolato), un sale di ammonio di un distillato minerale di formula bruta C28 H36S (SO3 H)2. l’attività delle miniere valceresine riprese, sia sul versante italiano, che su quello svizzero fino alla fine degli anni 50. Gli scisti diventarono per un certo periodo la materia prima per ottenere ittiolo per uso farmaceutico. La caratteristica di questo materiale è proprio quella di derivare da rocce ad alto contenuto di resti fossili di rettili marini e pesci, detti anche ittioliti, da cui deriva il nome della pomata. Il minerale bituminoso viene sottoposto a distillazione a secco, ottenendo un liquido oleoso trasparente di odore penetrante, costituito principalmente da idrocarburi non saturi e zolfo. Mescolando l’olio così ottenuto con acido solforico concentrato in eccesso, si svolge anidride solforosa e si forma acido solfoittiolico con forte sviluppo di calore. Aggiungendo al prodotto della reazione una soluzione di cloruro di sodio, l’acido solfoittiolico grezzo precipita come massa nera, mentre l’acido solforico, l’acido solforoso, e altre sostanze estranee vengono allontanate con l’acqua salata.
Figura 1 Miniera delle piodelle Besano
Come si può notare dalla fotografia queste cave conservano un aspetto quasi primitivo, ed anche per questa ragione lo sfruttamento non si rivelò mai particolarmente redditizio. Con il passare degli anni e con la grande disponibilità di combustibili fossili di importazione a prezzi decisamente inferiori di quelli estratti dalle miniere di Besano, fu inevitabile la chiusura delle miniere.
E’ curioso sottolineare che anche in altre due zone d’Italia si cercò di sfruttare lo scisto: nella miniera di Resiutta nelle Prealpi Venete, e nella zona di Giffoni Valle Piana in provincia di Salerno.
Figura 2 Fossile di “Ciro”
Le tre zone sono accomunate dal ritrovamento di importanti resti paleontologici: in Campania infatti non si è trovato solo Ciro, ovvero lo Scipionyx samniticus, primo dinosauro ad essere scoperto in Italia nel 1980, vissuto nel Cretacico Inferiore, ma anche molti pesci del triassico nella miniera di scisto di Giffoni Valle Piana.
Nel 1994 fu la volta di Antonio, ovvero Tethyshadros insularis un Adrosauro del Cretaceo superiore, rinvenuto a Duino Aurisina in provincia di Trieste.
Figura 3 Dinosauro “Antonio”
Nel 1993 venne scoperto proprio a Besano un ittiosauro vissuto nel Triassico medio. L’animale non meritò un soprannome, ma solo il colloquiale nome di Besanosauro (ovvero lucertola di Besano).
Figura 4 Uno dei resti fossili di Besanosauro
Sono stati rinvenuti cinque resti fossili dI Besanosauro, prima della scoperta del Saltriosauro, che venne scoperto nel 1996, ed era un dinosauro teropode vissuto nel Giurassico inferiore.
Confesso che non avevo mai collegato il prefisso “ittio” della pestilenziale pomata che si usa in dermatologia, per curare ascessi, foruncoli, dermatosi ed altre fastidiose malattie della pelle, prima di avere visitato il piccolo ma interessantissimo museo dei fossili di Besano.
Figura 5 Prodotti cosmetici derivati dagli scisti. Museo dei fossili di Besano.
Ricordo perfettamente quel giorno, era il 25 ottobre 2020 domenica. L’indomani sarebbe iniziato un altro lockdown, con meno restrizioni ma che chiudeva i musei, oltre ai centri sportivi, cinema e teatri, oltre a istituire un coprifuoco. La tristezza che provavo era attenuata dalla meraviglia della visita. E dalla consapevolezza che non esiste solo la libroterapia, ma anche la museoterapia, che ancora oggi mi aiuta. Potrei dire di essere vittima della mia insaziabile curiosità. Quella che finalmente mi fece capire meglio cosa fosse e da dove provenisse l’ittiolo.
Pomata che per mia madre non doveva mancare nell’armadietto dei medicinali. I ricordi si rinforzano anche così. Trovando il filo che lega una pomata ad un rettile estinto.
Il cuoio nel pallone
Biagio Naviglio
Introduzione
Il cuoio è da sempre uno dei materiali più diffusamente utilizzati dall’uomo per la fabbricazione di calzature, capi d’abbigliamento e oggetti di uso quotidiano di vario genere; nessun altro materiale è comparabile al cuoio per un così ampio range di applicazioni
Il cuoio ha trovato, quindi, applicazione anche nello sport (calcio, basket, rugby, cricket, pugilato, ecc.); anche un altro materiale di origine animale, come il budello naturale, ha trovato applicazione per la realizzazione delle corde delle racchette da tennis, tenuto conto dell’adeguato comportamento elastico del collagene. Per quanto concerne il calcio, per lo svolgimento dei campionati del mondo, il cuoio come materiale di copertura del pallone è stato utilizzato fino al mondiale di Spagna del 1982, vinto poi dalla Nazionale Italiana.
Il gioco con la palla
I giochi con la palla furono praticati a tutte le latitudini a partire da tempi antichissimi; nessuno sa con precisione chi abbia inventato per primo una palla; in ogni caso i nostri antenati giocavano già a palla.
I giochi con la palla erano sicuramente conosciuti in Egitto; sono state trovate palle di papiro, di tela o di cuoio piene di paglia, corda o crine; nelle pitture tombali, come quelle di Beni Hassan, sono raffigurate fanciulle che fanno giochi di prestigio con le palle. La campagna di scavi nel sito archeologico di Turfan (Cina), coordinata da Patrick Wertmann (università di Zurigo), ha permesso di recuperare tre palle in cuoio del diametro di 7-9 cm. La datazione, sia pure in un ampio intervallo di tempo (2.900-3.200 anni fa), fa di questi tre oggetti le palle più antiche mai rinvenute in Asia, almeno finora.
Trattasi di 3 sfere in pelle di pecora della dimensione di un pugno. Contenevano strisce di pelle imbottite con lana e capelli; l’imbottitura le rendeva morbide, pur mantenendo la forma sferica, e adatte per giocare (figura1). Secondo gli studiosi servivano per praticare sport; qualcosa, forse, di molto simile al polo.
Figura 1: Le palle di cuoio rinvenute nel cimitero di Yanghai con i numeri corrispondenti della tomba e dell’oggetto
A partire dalla civiltà greca diventano frequenti i documenti sia letterari che artistici che testimoniano la diffusione dei giochi basati sulla palla. Omero la conosceva bene e ci sono alcuni passaggi nell’Odissea che ne parlano, in particolare in occasione dello sbarco di Ulisse nell’isola dei Feaci (isola di Scheria – oggi Corfù). In particolare, i versi del VI canto dell’ Odissea fanno riferimento al gioco della palla che praticava Nausicaa con le ancelle dopo il bucato. A seguito di una deviazione, un urlo delle ragazze risvegliò Ulisse che era approdato sull’isola dei Feaci dopo il naufragio. Dalla traduzione dell’Odissea, libro sesto, del Pindemonte:
“Nausíca in man tolse la palla, e ad una
Delle compagne la scagliò: la palla
Desviossi dal segno, a cui volava,
E nel profondo vortice cadè.
Tutte misero allora un alto grido
Il calcio prima del calcio moderno
Cronologicamente, i giochi con la palla in uso nell’antichità che presentano sostanziali e indiscusse analogie con il calcio attuale si ebbero in Estremo Oriente; già nel 25° secolo a.C., l’imperatore cinese Xeng Ti obbligava gli uomini del suo esercito a praticare, fra i vari esercizi di addestramento militare, un gioco imperniato sul possesso di un oggetto sferico, molto simile a un pallone di oggi. Il gioco era chiamato Tsu-Chu (letteralmente palla di cuoio sospinta dal piede), che impiegava un pallone ripieno di piume e capelli femminili che bisognava infilare in porte di bambù, chiuse da una rete, utilizzando unicamente i piedi.
Nell’antica Roma un primordiale gioco del pallone era l’harpustum, italianizzato in «Arpasto» (dal termine greco arpazo, ἁρπάζω ), che significa strappare con forza, afferrare); lo scopo era quello di riuscire a poggiare la palla sulla linea di fondo del campo avversario. Erano permessi i passaggi sia con le mani sia con i piedi ed ogni giocatore ricopriva un ruolo ben preciso. La durezza del gioco e la virilità che emanava fece sì che diventasse tra i romani uno degli sport preferiti dai legionari che lo praticarono poi proprio come “allenamento” militare e che, combattendo in tutta Europa, ne favorirono la diffusione, esportandolo fino in Inghilterra. Il gioco era quindi molto violento e nonostante le molte testimonianze scritte non disponiamo delle regole precise con cui si disputavano le partite.
Marziale (poeta romano) ci dice qualcosa sulla palla, di due tipi: contadini e ceti popolari utilizzavano la pila paganica, palla fatta di cuoio e riempita di piume; gli altri avevano la follis (palla gonfia d’aria), cuoio fuori e una vescica di animale dentro a fare da camera d’aria. Da altre fonti si apprende che la palla con cui gli antichi romani giocavano l’harpastum era ottenuta riempendo una sfera di cuoio con lana o stoppa.
Il pallone non è sempre stato lo stesso che conosciamo oggi; i maya, gli aztechi e gli altri popoli centroamericani precolombiani giocarono alla palla per migliaia di anni, nelle centinaia di campi che si possono ancor oggi ammirare in vari siti archeologici, con una palla solida di gomma, di dimensioni analoghe a quelle regolamentari odierne, ma del peso di 3 o 4 chili, circa 10 volte più pesante delle nostre. La presenza dell’albero della gomma rendeva facile costruire palloni nel Nuovo mondo, ma nel Vecchio mondo bisognava ingegnarsi in qualche altro modo. Il più semplice era costruire un involucro quasi sferico costituito di pezze cucite, che si poteva poi riempire di stoffa o di foglie.
Diverse sono le testimonianze di oggetti in grado di rimbalzare grazie all’uso di camere d’aria tenute sotto pressione; si trattava di vesciche animali, per lo più di maiali, gonfiabili e protette dall’esterno da uno strato di cuoio. La loro forma irregolare generava, però, a ogni rimbalzo traiettorie imprevedibili, comequelle che oggi deliziano gli appassionati di rugby.
Origini del pallone moderno
Le origini del pallone da calcio moderno vanno attribuite a William Gilbert e Richard Lydon nella città di Rugby della contea del Warwickshire, in Inghilterra. Entrambi erano titolari di negozi di scarpe in High Street a Rugby, la fine della strada conduceva al cortile d’ingresso della famosa public school (famoso college dove William Webb Ellis inventò il rugby).
I due cominciarono a fabbricare palloni per i bambini rivestendo la vescica di maiale con quattro pannelli di cuoio perché venivano recuperati dagli strampoli delle pelli utilizzate per la fabbricazione di scarpe. Questi palloni non erano sempre rotondi ma assumevano ogni volta una forma diversa (es. forma di prugna rotondeggiante).
All’inizio i palloni si gonfiavano esclusivamente soffiandoci dentro grazie a una specie di valvola in argilla che collegava il lato aperto della vescica; la pratica era piuttosto disgustosa in quanto le vesciche erano ancora «fresche». La realizzazione delle prime camere d’aria in gomma, partendo dal caucciù, avvenne negli Stati Uniti nella seconda metà dell’Ottocento ad opera di Charles Goodyear (brevetto registrato nel 1844 e riguardante la vulcanizzazione della gomma). In questo modo il pallone, costituito esternamente da una copertura in cuoio e internamente da una camera d’aria in caucciù, poteva essere gonfiato con una normale pompa da bicicletta.
La camera d’aria in gomma veniva rivestita, in particolare, con 12 strisce di cuoio legate, tramite cucitura, ma con uno spazio sufficiente per poterla gonfiare.
Il pallone di cuoio, in genere, era di colore marrone/rosso scuro: il colore naturale del cuoio derivante, tra l’altro, dal tipo di tannino naturale impiegato per la concia; le tonalità di colore potevano essere differenti a seconda della qualità e dell’origine del cuoio ed in base ai trattamenti applicati per conciarlo e ammorbidirlo. I palloni di questo tipo presentavano alcuni inconvenienti: non erano perfettamente sferici, tendevano a deformarsi durante il gioco e non erano del tutto impermeabili. I palloni utilizzati sino agli anni trenta, inoltre, presentavano troppe cuciture e una stringa che chiudeva la copertura di cuoio; in tal modo, quindi, colpirlo di testa poteva rappresentare una vera e propria sfida. In figura 2 è rappresentato un pallone di cuoio con stringa)
Figura 2: Pallone di cuoio del mondiale – Italia 1934: Caratterizzato da una pelle bovina di colore marrone naturale e da 13 pannelli di forma poligonale, sagomati a coroncina
Caratteristiche del pallone del calcio moderno
Le caratteristiche del pallone da calcio furono definite nel 1872 dalla Football Association inglese e da allora sono rimaste pressoché invariate: il pallone, realizzato in cuoio o altro materiale idoneo, deve avere una circonferenza tra 68 e 70 centimetri, peso tra 410 e 450 grammi e la pressione all’interno compresa tra le 0,6 e 1,1 atmosfere.
Tuttora, il Regolamento del Giuoco del Calcio Italiano (FIGC E AIA), edizione 2023, prevede che:
Tutti i palloni devono essere di forma sferica, fatti di materiale approvato, di circonferenza compresa tra i 68 cm e i 70 cm, di peso compreso tra i 410 g e i 450 g all’inizio della gara, di pressione pari a 0,6 – 1,1 atmosfere a livello del mare.
La geometria del pallone moderno
Circa la sfericità, è noto dalla fisica che, per evitare traiettorie imprevedibili dopo il rimbalzo, il pallone debba essere perfettamente sferico; a riguardo, anche i Greci sapevano che la forma ottimale del pallone è quella sferica.
Nel «Fedone» Platone racconta che i greci giocavano con palloni dodecaedrici: costruiti, cioè, con un involucro ottenuto cucendo insieme 12 pezze pentagonali regolari di cuoio. Ma le facce del dodecaedro formano angoli solidi abbastanza acuti, e una palla dodecaedrica ha almeno due svantaggi: rotola malamente sul terreno, e fa male se la si calcia a piedi nudi.
L’icosaedro troncato e gonfiato è il poliedro che meglio approssima una sfera usando un numero limitato di figure piane; l’icosaedro troncato si ottiene unendo 32 poligoni regolari: 12 pentagoni e 20 esagoni. Struttura che ricorda quella del fullerene (molecola composta da 60 atomi di carbonio).
In un pallone gonfiato i pentagoni e gli esagoni si trasformano in superfici curve, perché deformati dalla pressione interna: si raggiunge così un volume superiore al 95% di quello della sfera circoscritta; l’icosaedro troncato gonfiato rappresenta ancora oggi l’emblema del calcio
Nel 1970, fu il pallone ufficiale dei mondiali del Messico; fu chiamato «Telstar» in onore dei primi satelliti per le telecomunicazioni; è composto da 32 poligoni cuciti a mano, 20 pannelli bianchi di forma esagonale e 12 neri di forma pentagonale e con una camera d’aria con valvola di ultima generazione senza cucitura. Sulla superfice esterna fu applicata una speciale lamina in plastica trasparente, brevettata con il nome Durlast, che rendeva il pallone impermeabile e manteneva il cuoio più protetto. Il pallone in cuoio diventò una vera e propria icona del calcio (figura 3).
Figura 3: Pallone di cuoio del mondiale in Messico 1970: Telstar
Evoluzione dei materiali del pallone: dal cuoio al poliuretano
Il cuoio, come materiale di copertura dei palloni da calcio nei campionati del mondo, è stato usato fino al 1982: mondiale che si è svolto in Spagna e vinto dall’Italia; il pallone si chiamava «Tango Espana». Nel 1986 in Messico “Azteca” sostituì “Tango Espana”, rivoluzionando la tecnica di produzione dei palloni, essendo il primo pallone sintetico (poliuretano) mai realizzato per un torneo FIFA World Cup; si trattava sempre di un modello a 32 pannelli, 20 esagonali e 12 pentagonali, ancora cuciti a mano con filo di nylon.
L’uso di polimeri sintetici ha consentito, tra l’altro, di sostituire le cuciture con la termosaldatura riducendo così al minimo le asperità presenti sulla superficie del pallone; in questo modo è stato possibile ottenere un miglioramento del gioco di testa (eliminazione/riduzione delle ferite dovute alle stringhe e cuciture). Inoltre, il pallone di cuoio fino al 1970 si appesantiva in condizioni bagnate; ciò era dovuto al fatto che il cuoio conciato al vegetale è alquanto idrofilo. Il pallone di cuoio inzuppato dava problemi sia al portiere (difficoltà nel controllo della presa) che ai calciatori ( pallone più pesante e quindi difficoltà nel tiro). Per tale motivo l’adidas per i campionati del mondo del 1970 utilizzò un cuoio “rifinito/protetto” con uno strato superficiale di poliuretano denominato “durlast” per renderlo più idrorepellente.
Dall’edizione del mondiale 2006, la classica geometria dell’icosaedro troncato è stata abbandonata per essere sostituita da un numero ridotto di pannelli. Il pallone ufficiale di Qatar 2022, denominato «Al Rihla» (in arabo, Il Viaggio), ha una superficie testurizzata in poliuretano con una nuova composizione a 20 pannelli, invece di 32 come nel Telstar. Al Rihla è costituito da otto pezzi triangolari e dodici pezzi a forma di aquilone; una volta incollati producono un icosidodecaedro quasi sferico.
Conclusioni
Il gioco della palla è alle origini della nostra esistenza; da piccoli per giocare a calcio qualsiasi strada cittadina si trasformava in un vero e proprio campo calcistico; si usava qualsiasi cosa in grado di rotolare: plastica, stoffa, stracci, carta, cuoio.
Il pallone di cuoio è stato, in ogni caso, il sogno di tanti ragazzini anche perché è stato il pallone ufficiale dei campionati del mondo dal 1930 al 1982; il pallone di cuoio ha accompagnato, quindi, la vittoria della nazionale italiana per ben tre volte (1934, 1938 e 1982); il pallone della vittoria mondiale del 2006 non era di cuoio in quanto tale materiale naturale è stato sostituito da polimeri sintetici a partire dal mondiale del 1986. Il pallone di cuoio, comunque, evoca un fascino unico, legato alla nostalgia del passato, raccontando storie di partite epiche che hanno fatto la storia del calcio.
Bibliografia
- Alhaique F., Nicoletti R., Campanella L., Caputo, R., Misiti D., Scorrano G., La Chimica nello sport- Parte 2: Nuovi materiali e attrezzature sportive, La Chimica e l’Industria, 4, 2017
- Wertmann P., Chen X., Li X., Xu D., Tarasov P., Wagner M., New evidence for ball games in Eurasia from ca. 3000 year old Yaughai Tombs in the Turfan depression of north west China, Journal Archaelogical Science, Volume 34, Part B, December 2020
- Ghys E., L’incredibile storia del pallone da calcio, Edizioni Sonda, maggio 2024
- Ludwig N., Guerrerio G., La scienza nel pallone, gennaio 2012, Zanichelli
- Odifreddi P., Il pallone, il caso e l’arte di Archimede, Il Fatto Quotidiano, 2018
- Odifreddi P., Breve storia del pallone, Le Scienze 2019
- Zini E., Correre col tempo – Il design delle attrezzature sportive tra conservazione e innovazione, Tesi di Laurea, Politecnico di Torino corso di Laurea in Design e Comunicazione visiva, anno accademico 2020/2021
- Di Tucci A., Il Pallone, l’Anima del Calcio
- Sito web FIFA https://www.fifa.com/it
Alberi
Luigi Campanella, già Presidente SCI
Ho più volte, anche in questa rubrica, parlato dell’importanza ambientale, igienico-sanitaria ed anche economica degli alberi e quindi anche della necessitá di una politica del verde che provveda ai rinnovamenti resi necessari dalle morti, ma anche alle manutenzioni. Non smetto di ricordare che il ruolo di un albero può essere coperto solo se questo raggiunge e superi una dimensione minima limite. Gli alberi migliorano la qualità della vita ed in questi periodi caldi ed umidi vengono ricercati come isole di sollievo al caldo torrido. Su Lancet è stato di recente pubblicato un lavoro nel quale viene calcolato che aumentare le fronde degli alberi del 30%in 50 città europee corrisponderebbe ad una diminuzione del 40%delle morti per afa. https://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140-6736(22)02585-5/abstract
Torna di attualità il concetto di fitopoli, cioè una città in cui il rapporto dello spazio riservato alle piante è lo stesso che in natura pari allo 86,7%. Nel 2017 è nato il progetto europeo Grow Green per aumentare gli spazi verdi nelle città e contrastare il riscaldamento globale da una parte e le alluvioni dall’altra. In Italia ha aderito Modena con i fondi messi a disposizione dal PNRR: circondarsi di piante e vegetazione fino a trasformare i paesaggi urbani ed utilizzare sistemi che facilitano l’assorbimento dell’acqua da parte del suolo. È stato proprio un chimico negli anni 70 del secolo scorso, James Lovelock, che intuì che il nostro pianeta confrontato con la natura mostrava anomalie di composizione e di comportamento che ne giustificavano il connotato di grande malato: il responsabile di questa malattia era il genere umano stesso. Un indicatore di tale responsabilità è l’anidride carbonica prodotto di emissione di tutte le attivitá antropiche, riscaldamento domestico, trasporto automobilistico ed aereo, industria. Il riscaldamento ha anche altri responsabili, il disboscamento, quando si sceglie di adibire le foreste a pascoli e coltivazioni, lo scioglimento delle calotte polari, le emissioni di metano da parte del bestiame. Le piante, dicevamo, funzionano da regolatori termici, ma anche contrastano smog e rumore, rispondono complessivamente al concetto di one health, il mondo animale, vegetale, umano (chissà anche minerale!!??) ne risultano tutti avvantaggiati sul piano della salute. C’è poi un aspetto che sempre più viene focalizzato riferito all’effetto positivo delle piante sulla mente, la psicologia, lo stato d’animo umano tanto che si parla ormai con sempre maggiore frequenza di verde terapeutico, di giardini considerati alternativa prima ai farmaci ed alle cure mediche tradizionali. Volendo vedere l’altra faccia della medaglia é facile comprendere perché e come si parli oggi di disordine da deficit di natura. Un ricercatore canadese Cecil Konijnenijk ha ideato la formula empirica 3-30-300:tutti dovrebbero essere in grado di vedere almeno 3 alberi dalla finestra di casa, di vivere in un quartiere con il 30% di verde, di trovarsi al massimo distanti 300 m dal parco più vicino. Su questi temi la bibliografia scientifica si è arricchita molto negli ultimi tempi in tutte le parti del mondo dal Giappone con il bagno nella foresta alle foreste della felicità olandesi, dalla teoria della memoria ancestrale dei boschi di Harvard alla vitamina N (sta per natura) dall’inglese Oliver Sacks.
Tatuaggi: chimica, fotochimica, biochimica.
Maurizio D’Auria
Ritornando da vacanze estive passate al mare, non posso fare a meno di esplicitare alcune considerazioni su un comportamento assai diffuso, soprattutto nelle nuove generazioni, quello dei tatuaggi. È impossibile non notare come molte persone esibiscano con orgoglio la propria cute trasformata in una tela su cui appaiono fantasiose elaborazioni, spesso di dubbio gusto.
Painted to perfection. A cropped shot of a tattooed young womanSpesso troviamo estesi tatuaggi su persone che, per altro verso, si preoccupano moltissimo del loro aspetto fisico e della propria salute, conducendo stili di vita particolarmente, se non esageratamente, attenti all’alimentazione.
I coloranti che vengono utilizzati nei tatuaggi vengono certificati come innocui e, spesso, come “naturali”. Ma è proprio vero?
Esaminiamo il problema. Cosa c’è nei tatuaggi? Prendo in prestito le parole di alcuni ricercatori che nel 2022 hanno scritto una review sull’argomento [1]:
“I colori dei tatuaggi sono miscele complesse che possono contenere più pigmenti, un carrier, conservanti, disperdenti, e formulanti. Inoltre, i colori contengono spesso sottoprodotti o precursori dalla produzione del pigmento, molti dei quali erano originariamente destinati per altre industrie. I pigmenti possono essere formati da molecole inorganiche, come il biossido di titanio, nel caso degli inchiostri bianchi e molti inchiostri colorati come agente colorante, complessi organometallici, come le ftalocianine nel caso degli inchiostri bue e verdi, o molecole organiche, come azocomposti nel caso degli inchiostri gialli, rossi, e arancio. […] Dato che questi pigmenti tendono ad avere una bassa solubilità nel carrier, che è spesso costituito da acqua, glicerina, alcoli, amamelide o sue combinazioni, sono spesso necessari disperdenti per evitare aggregazioni”.
Di seguito diamo alcune strutture di coloranti tipici usati negli inchiostri utilizzati nei tatuaggi.
Tutti questi coloranti non sono stabilissimi alla luce. Mentre per le ftalocianine è stato proposto che siano stabili alla luce del sole, i coloranti azoici si decompongono dando luogo a prodotti di degradazione che possono essere tossici.
A complicare ulteriormente le cose sta il fatto che i pigmenti non rimangono nel posto dove sono stati messi ma sono mobili e sono stati trovati nei linfonodi e nel fegato.
Fino a qualche tempo fa, tuttavia, non si aveva una netta evidenza di pericolosità per questa pratica. Nel giugno di quest’anno, tuttavia è stato pubblicato un articolo su Lancet che non permette più di mantenere una posizione di attesa [2]. Questo articolo evidenzia un incremento del 21% dell’incidenza di linfomi, in particolare large B-cell limphoma e follicular limphoma. Sono stati studiati principalmente i linfomi dato che dopo 6 settimane dal tatuaggio il 33% dell’inchiostro ha traslocato nei linfonodi.
Gli autori hanno notato un aumento del rischio nei primi 2 anni dopo il tatuaggio e a distanza maggiore di 11 anni dall’intervento. Il tipo di linfoma prevalente nei due casi è diverso. Non è stata trovata evidenza fra l’incidenza del linfoma e l’area del tatuaggio (anzi, si è osservata prevalenza nei piccoli tatuaggi). Non è stata trovata evidenza fra l’incidenza del linfoma e il colore utilizzato nei tatuaggi.
Infine, è stata trovato un incremento dell’incidenza del tumore nei soggetti che si erano sottoposti a trattamento laser per eliminare il tatuaggio (sulla base del fatto che l’irradiazione laser decompone il colorante provocando la formazione di sostanze cancerogene).
Gli autori notano che i loro risultati non sono conclusivi e che lo studio dovrebbe essere allargato. Tuttavia, i risultati a me sembrano significativi.
Che audience ha ricevuto questo studio? Un articolo sul Corriere della Sera del 20 maggio 2024 e nulla più.
Non sarebbe il caso di approfondire il problema?
[1] Fraser, T. R.; Ross, K. E.; Alexander, U., Lenehan, C. E. Current knowledge of the degradation products of tattoo pigments by sunlight, laser irradiation and metabolism: a systematic review, J. Expos. Sci. Environ. Epid. 2022, 32, 343-355. https://doi.org/10.1038/s41370-021-00364-y
[2] Nielsen, C.; Jerkeman, M.; Jöud, S. Tattoos as a risk factor for malignant lumphoma: a population-based case-control study. Lancet 2024, 72, 102649. https://doi.org/10.1016/j.edinm.2024.102649.
S.O.S dall’astronave Terra: usare fonti rinnovabili (e altre storie)
Vincenzo Balzani, Professore Emerito UniBo
questo articolo è stato pubblicato in parte su Bo7
Quando si guarda la Terra da lontano, come ci permettono di fare le foto scattate da satelliti artificiali, ci si rende conto di quale sia la nostra condizione: siamo passeggeri di una specie di astronave che viaggia nell’infinità dell’Universo. È un’astronave del tutto speciale perché non potrà mai atterrare da nessuna parte, non potrà mai fermarsi a una stazione di servizio per far rifornimento o scaricare rifiuti. Se qualcosa non funziona, dobbiamo rimediare da soli, senza neppur scendere.
Gli scienziati da tempo ci avvertono che è in atto un pericoloso cambiamento: aumenta la temperatura del globo (il 21 luglio è stata la giornata più calda di sempre) e sta cambiando il clima, con conseguenze molto gravi. È un effetto causato dall’uso dei combustibili fossili, la nostra principale fonte di energia. Ogni secondo, e i secondi passano in fretta, nel mondo consumiamo 250 tonnellate di carbone, 1000 barili di petrolio e 105 mila metri cubi di gas, producendo e immettendo nell’atmosfera, sempre ogni secondo, circa 1000 tonnellate di anidride carbonica (CO2): un gas che avvolge il globo come un manto che permette ai raggi solari di scaldare la superficie del pianeta, impedendo al calore di uscire nello spazio. Questo fenomeno, chiamato “effetto serra”, provoca un riscaldamento della Terra e pesanti cambiamenti climatici.
Gli scienziati dell’IPCC (International Pannel on Climate Change) ci dicono che c’è solo un modo per arginare questa situazione, che diventa ogni giorno più grave: smettere di usare i combustibili fossili e sviluppare le energie rinnovabili del Sole, del vento e dell’acqua. La transizione dai combustibili fossili alle energie rinnovabili, però, è fortemente ostacolata da interessi economici e politici. Il segretario dell’ONU Guterres ha più volte ammonito che “il mondo è fuori rotta” e gli scienziati hanno lanciato “un’ultima chiamata” per salvare il pianeta.
Chi si aspettava un Piano del Governo per l’energia e il clima capace di riportare l’Italia nella “rotta giusta” e di rispondere “all’ultima chiamata” degli scienziati, anche quest’anno è rimasto molto deluso. L’Italia, invece di adagiarsi sulle direttive e sugli obiettivi europei, dovrebbe attuare programmi più ambiziosi, in linea con le sue possibilità. Ha abbondanti energie rinnovabili e una forte industria manufatturiera che permette di utilizzarle per ottenere, senza causare inquinamento, elettricità, che è la fonte energetica più pregiata. Invece, continuiamo a importare combustibili fossili che bruciamo per ottenere calore, dimenticando l’inquinamento e i cambiamenti climatici di cui sono responsabili e che colpiscono duramente il nostro territorio, proprio nella sua vocazione turistica e culturale. Dovremmo aver capito che ormai abbiamo “bruciato” più di quello che si doveva “bruciare” e anche che l’agricoltura deve essere utilizzata solo per l’alimentazione e non per produrre biocombustibili.
La transizione dai combustibili fossili alle energie rinnovabili è non solo necessaria, ma inevitabile. Per il nostro Paese assecondarla o, ancor meglio, anticiparla sarebbe una grande opportunità di crescita economica e di riduzione dei costi causati dai cambiamenti climatici.
La transizione energetica, pur necessaria, non è però sufficiente per garantire un futuro sostenibile. Perché c’è un problema più generale, che investe tutte le risorse materiali. Oggi il mondo funziona con la cosiddetta economia lineare: prendiamo le risorse dalla Terra, costruiamo quello che ci serve (spesso anche quello che non serve) lo usiamo e alla fine lo gettiamo nei rifiuti: è l’economia dell’usa e getta, il consumismo. Un sistema economico di questo tipo non è sostenibile perché è basato su due falsità: l’esistenza di una quantità infinita di risorse a cui attingere e la possibilità di eliminare i rifiuti. Se vogliamo raggiungere almeno un certo grado di sostenibilità, bisogna passare dall’economia lineare dell’usa e getta all’economia circolare, cioè prelevare dalla Terra le risorse nella minima quantità possibile, usarle in modo intelligente per produrre cose che funzionino bene, che se si rompano possano essere riparate o usate per altri scopi, e che infine vengano raccolte in modo differenziato per poterle riciclare e ottenere così nuove risorse.
Ma anche questa seconda transizione, dall’economia lineare all’economia circolare non può garantirci un futuro sostenibile se non ci abituiamo a consumare di meno, a vivere adottando il criterio della sufficienza e della sobrietà, che non vuol dire essere meno felici.
Novità PFAS
Ethical consumer è una rivista inglese che si pone l’obiettivo di informare il consumatore sugli effetti del suo consumo, diciamo che si batte per un consumo consapevole, una cosa vicina a Altroconsumo in Italia. Recentemente è uscito un articolo sulla questione PFAS e sui prodotti ad essi connessi che interessano di più il consumatore privato, i vestiti.
La rivista ha esaminato 41 aziende che producono abbigliamento e attrezzature per l’outdoor venduta in Gran Bretagna – dalle giacche agli scarponi agli zaini – e ha scoperto che l’82% dei brand utilizza ancora sostanze per- e polifluoroalchiliche. Jane Turner, ricercatrice di Ethical Consumer, ha dichiarato: “L’irreversibile contaminazione globale e l’estrema tossicità delle ‘sostanze chimiche per sempre’ sono indiscusse da anni, ma la maggior parte delle aziende di abbigliamento outdoor continua a usarle inutilmente e ad aumentare il carico di inquinamento dei PFAS. Questo non è accettabile e le aziende devono smettere di usarli ora. I consumatori dovrebbero acquistare solo dalle aziende responsabili che hanno smesso di usare i PFAS”.
Quando questi prodotti vengono impiegati e si usurano, il processo di invecchiamento “fa sì che gli escursionisti che indossano l’attrezzatura da outdoor disperdano alcune sostanze chimiche nell’ambiente, anche se la maggior parte dell’inquinamento da PFAS si verifica durante la produzione delle sostanze chimiche, quando vengono applicate ai tessuti e quando un prodotto viene gettato via”, ricorda il Guardian. Sarebbe il caso di farsi sentire anche noi in Italia. Che ne dite?
Link dell’articolo e dell’indagine:
https://www.ethicalconsumer.org/fashion-clothing/problem-forever-chemicals-waterproof-clothing
https://www.ethicalconsumer.org/fashion-clothing/shopping-guide/ethical-outdoor-clothing